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Lo so: certe volte mi eclisso. Finisco nel cono d’ombra di una specie di apatia che mi costringe a mollare tutto. E penso che neanche in una vita diversa, anche fantasticamente scintillante, sarebbe differente… sarebbe stato differente. Il risultato è che nulla mi attrae più; niente mi interessa. I miei facili entusiasmi – che di solito mi spingono all’azione repentina – si spengono del tutto. Oppure durano poche ore. E il mondo mi sembra un posto noiosissimo dove vivere. A chi non capita? Chi è sempre dello stesso umore?
Ma poi basta un niente per rimettermici, a questo mondo.
Oggi, primo gennaio del 2016, mi è bastato rivedere una foto che ho scattato l’estate scorsa a Joggi, sotto la veranda della casa nell’orto.
Ci sono un padre, un figlio e la semplicità disarmante di un luogo. Rivedendolo oggi mi sorprende quanto il risultato di quello scatto comunichi tutto quello che deve: l’idea universale di cura. Il dolce e solerte interessamento che impegna l’animo e il corpo di un individuo più forte (quantunque ironico o a tratti comico come il mio amico Nicola) e che spesso si traduce in gesti piccoli, anche spontanei. E ciò vale per gli esseri umani, gli altri esseri viventi… le cose.
E finché esisteranno immagini come queste, finché esisterà la possibilità di scattarle, il mondo continuerà a essere un buon posto dove vivere e, soprattutto dove tornare… Al rientro dal mio andar errando fuori orbita.

Per il 2016 auguro a tutti di aver cura di almeno una cosa: serve a chi cura e a chi o a ciò che è curato.

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