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Antonio Perri

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LAMEZIA TERME (CZ) – Antonio Perri era il “garzone” di una piccola bottega di generi alimentari. Da qui iniziò la sua ascesa fino a diventare il “re” dei supermercati nonché ideatore e fondatore del centro commerciale più grande della Calabria: il “due mari”.

La richiesta della Procura di Catanzaro di sequestrare i beni dei figli di Antonio Perri (Pasqualino, Franco e Marcello) si fonda (oltre che sulla sproporzione dei redditi dichiarati dai fratelli Perri rispetto alle loro attività) infatti, sui trascorsi di Antonio Perri, 71 anni (che subì una prima condanna il 30 dicembre del 1957 per falsa testimonianza) ucciso il 10 marzo del 2003 all’interno del deposito del centro commerciale “Atlantico” di Lamezia (una delle sue ultime “creature”).

Antonio Perri iniziò la propria attività lavorativa come dipendente di una piccola bottega di generi alimentari a Nicastro, ma che già a partire dagli anni 80 si era messo in proprio vendendo merce soprattutto di provenienza illecita (generi alimentari scaduti e provenienti da furti come i distillati, olio “taroccato” e altro). Ma la Procura ha puntato anche sulla personalità dei fratelli Perri contro i quali la Procura ha chiesto anche la sorveglianza speciale con obbligo di dimora nel comune di residenza per la durata di 5 anni. Il tutto supportato da una corposa informativa della Guardia di Finanza di Catanzaro che costituisce il perno fondante della proposta della Procura di mettere i sigilli all’ingente patrimonio (dal valore di oltre 800 milioni di euro) sequestrato ai fratelli Pasqualino, Franco e Marcello Perri, nell’ambito dell’operazione “Mare Magnum” (sequestro finalizzato alla confisca dei beni e dei complessi aziendali disposto dal tribunale di Catanzaro sezione misure di prevenzione).

Con richiesta di sequestro (poi accolta) la Procura vuole dimostrare come il complesso dei beni facenti parte del patrimonio posseduto dai fratelli Perri, “tragga origine – si legge nel provvedimento del tribunale – e risalga al patrimonio illecitamente costituito da Antonio Perri”. Le risultanze investigative, inoltre – per la Procura – evidenzierebbero come i Perri (in particolare Franco) e in precedenza il loro padre, costituirebbero “gli imprenditori di riferimento delle cosche operanti nel comprensorio lametino, in quanto, asservendo le aziende di cui sono titolari agli interessi e alle esigenze dell’associazione ‘ndranghetista – secondo la Procura – sono legati a quest’ultima da un illecito accordo a prestazioni corrispettive, di reciproco e mutuo vantaggio, per effetto del quale hanno ottenuto e ottengono ingenti profitti grazie all’intermediazione mafiosa in violazione alle regole del libero mercato”. Gli inquirenti sottolineano, inoltre, “il carattere stabile e continuativo del rapporto di reciproco scambio e mutuo vantaggio assicurato negli anni dai Perri alle consorterie prima dei De Sensi, in seguito delle consorteria Cannizzaro e, da ultimo, di quella facente capo al clan Iannazzo”. 

Il tutto anche secondo le dichiarazioni di vari pentiti (Gennaro Pulice, Rosario Cappello, Giuseppe Giampà, Giovanni Governa nel periodo in cui era un collaboratore di giustizia e Pasqualino D’Elia). I quali hanno anche raccontato il contesto attorno al quale sarebbe maturato l’omicidio di Antonio Perri, scaturito – secondo le risultanze investigative – dal fatto che gli esponenti della cosca Torcasio, nonostante avessero precedentemente (il 22 gennaio del 1998) ucciso Giuseppe Cannizzaro, già protettore dei Perri, a sua volta vicino agli Iannazzo, non tolleravano a maggior ragione il successivo avvicinamento di Antonio Perri direttamente alla cosca Iannazzo, sia perché le relative attività commerciali e il costruendo centro commerciale “due mari” ricadevano sul territorio d’influenza dei Torcasio e soprattutto perché ritenevano Vincenzino Iannazzo responsabile dell’omicidio di Giovanni Torcasio che, a sua volta, imponeva le “mazzette” di Perri. Rispetto all’omicidio di Antonio Perri, però, l’unica verità giudiziaria è stata la condanna definitiva (nel 2012) a 30 anni di carcere del killer Nicola Paciullo, la verità giudiziaria, invece, sul mandante (o mandanti) ancora non c’è dopo 19 anni dal delitto.

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