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Francesca Gigliotti in Afghanistan

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Nell’ospedale materno-infantile di Medici senza frontiere a Khost in Afghanistan, dal 15 al 17 agosto sono state ricoverate 100 donne e sono nati 77 bambini. Ostetriche, medici e infermieri continuano a lavorare e ad offrire assistenza alla popolazione, nonostante l’arrivo dei Talebani e le fughe disperate negli aerei cargo americani.

«Io sono tornata da Khost il 2 agosto scorso – racconta Francesca Gigliotti, responsabile delle risorse umane di Msf – ma la mia non è stata una fuga, ho soltanto concluso la missione e sono ritornata in Italia».

Nata 31 anni fa a Platania, un borgo della provincia catanzarese affacciato sulla piana di Lamezia Terme, dopo gli studi in psicologia a Roma e la specializzazione in risorse umane, ha iniziato a lavorare nell’ufficio della capitale di Medici senza frontiere.

Nel dicembre del 2018 la prima missione nella Repubblica democratica del Congo durante l’emergenza Ebola e poi a Konakri, la capitale della Guinea. Durante l’emergenza Covid ha operato anche a Lodi e Codogno.

«A un certo punto ho avuto voglia di conoscere i progetti umanitari più da vicino e per questo ho deciso di partire – spiega –. Il mio compito, come responsabile delle risorse umane, è quello di gestire lo staff, di valutare quante figure professionali servano in un determinato contesto per svolgere il lavoro nel modo migliore e occuparmi anche della formazione degli operatori, sia quelli locali che stranieri, secondo i protocolli di intervento fissati dalla nostra organizzazione».

Francesca è partita per l’Afghanistan nel novembre del 2020. Msf a Kost ha realizzato un grande ospedale nel quale porta avanti un progetto dedicato alla maternità e fa da supporto ad altri cinque centri di salute dislocati nella stessa provincia. L’organizzazione umanitaria avrebbe dovuto allargare il suo raggio d’azione con altre tre strutture, ma l’attuale situazione politica ha rallentato la sua attività di espansione sul territorio.

«Il supporto che noi diamo alle realtà satelliti – continua Francesca – è sempre legato alla maternità. Il nostro ospedale di Khost è molto grande e ha uno staff composto da 450 operatori afgani e dodici espatriati, stranieri. Accogliamo tutte le pazienti che hanno bisogno di partorire e lo facciamo secondo dei criteri di ammissione ben precisi. Ci occupiamo, in definitiva, dei casi più gravi che spesso non hanno trovato soluzione in altre strutture private. Gli ospedali provinciali presenti sul territorio non sempre sono in grado di offrire alle donne interventi e cure adeguate e comunque in Afghanistan tante famiglie preferiscono rivolgersi a noi piuttosto che ad altri. Ciò che rende il nostro progetto ancora più importante è che in un luogo in cui in questi giorni si parla soprattutto del ritorno dei talebani e del burqa per le donne, noi possiamo dire con grande orgoglio di avere nel nostro staff 280 donne afgane che lavorano con noi e questo significa che il nostro progetto, fin da quando è nato, nel 2012, ha stimolato tante donne a studiare e sono diventate ostetriche e ginecologhe. All’inizio non è stato facile trovare personale qualificato perché non erano tante le donne che andavano a scuola. Solo dopo l’apertura dell’ospedale di Msf e l’inizio delle attività, tante famiglie hanno permesso alle loro figlie di studiare. E questo non è poco».

L’Afghanistan raccontato da Francesca è sempre stato un paese in guerra e per questo gli operatori sanno come comportarsi in caso di attacco improvviso. Chi lavora per Medici senza frontiere sa bene che il pericolo è dietro l’angolo, ma è proprio in questi luoghi difficili, dilaniati da guerre e contrasti politici, che bisogna essere presente per aiutare la popolazione. Questa è la missione di Mdf.

«L’attività all’ospedale prosegue come sempre – continua l’operatrice umanitaria –. Io ho contatti con i colleghi che sono rimasti a Khost e mi dicono che ora arrivano meno donne perché chi viveva in posti lontani, con l’attuale situazione fa più fatica a raggiungerci e quindi cerca di partorire in casa. Ma per quanto riguarda il nostro impegno, noi siamo pronti, come abbiamo sempre fatto, ad aiutare tutte le donne che hanno bisogno di noi. In questi ultimi giorni il numero dei parti sembra leggermente diminuito ma registriamo comunque una media di sessanta nascite al giorno. In un mese noi facciamo partorire circa 1500 donne, sempre rigorosamente accompagnate da un uomo che sia il marito, il padre o un fratello».

E se bisogna ricorrere al parto cesareo, il consenso non lo si può chiedere alla donna ma è sempre un uomo della famiglia a poterlo dare. Francesca Gigliotti osserva quanto l’Afghanistan, a parte gli ultimi sconvolgimenti, sia sempre stata una realtà molto complessa dove le donne hanno sempre dovuto faticare molto per ottenere il riconoscimento di qualche diritto. Le stesse operatrici del loro ospedale hanno sempre indossato il burqa per una questione legata alla sicurezza.

«Khost non è Kabul – spiega – dove si possono incontrare anche donne che vestono all’occidentale. In questi luoghi chiusi e remoti, le tradizioni, anche quelle sbagliate, sopravvivono e spazzano via qualunque vento di modernità. Nonostante oggi tante donne lavorano, sono indipendenti e portano i soldi a casa, temono che non portare il burqa li sottoponga al giudizio degli altri e che vengano considerate cattive donne e cattive madri».

Quando Francesca ha lasciato l’Afghanistan era già iniziata l’avanzata dei talebani. Khost è stata una delle ultime province ad essere presa il 14 agosto. È innegabile che tra gli operatori sia nazionali che stranieri, serpeggi una certa preoccupazione però Msf continuerà a lavorare e ad essere presente sul territorio con tutto il personale necessario.

«Ci sono dei momenti durante le missioni in cui, purtroppo, si è costretti ad andare via – ricorda Francesca –. Nel 2019, quando ero ancora in Congo, siamo stati allontanati tutti perché dei gruppi ribelli erano ormai arrivati a poca distanza da noi e avevano già attaccato altri ospedali. In quel momento il responsabile della nostra sicurezza comprese che non potevamo più rimanere. Quando il livello del rischio è elevato, bisogna essere capaci di decidere per non mettere a rischio la vita degli stessi operatori umanitari. Ma è chiaro che nessuno di noi vorrebbe mai abbandonare la popolazione e i progetti messi in piedi con il lavoro di anni».

Francesca da qualche giorno è ritornata in Calabria dalla sua famiglia ma con il pensiero è rimasta accanto ai suoi colleghi che operano sul campo. E sono tanti. Solo qualche giorno di vacanza e poi ritornerà ad occuparsi di progetti da mandare avanti e a persone da formare per mandare in luoghi dove la guerra è la normalità e il diritto alla cura, essenziale per la sopravvivenza.

«Non appartengo a quella categoria di persone che sin da piccole volevano fare i volontari – conclude Francesca –. Sono sempre stata attratta dai luoghi e dalle culture diverse dalla mia, ho sempre amato viaggiare e non l’ho mai fatto da turista, ma ho cercato ogni volta di entrare con l’anima libera da ogni pregiudizio nelle realtà che ho avuto la fortuna di conoscere. Il mio impegno in Medici senza frontiere è maturato lentamente e si è nutrito dei racconti di medici e operatori che ascoltavo ogni giorno nel mio ufficio romano. Solo quando mi sono sentita fortemente attratta e desiderosa di fare la mia parte, sono partita in missione. Ho lavorato tanto, ho mangiato minestra di fagioli anche per un mese intero e quando la sera crollavo esausta, mi sentivo comunque felice, appagata, perché avevo fatto qualcosa che dava un senso vero alla mia esistenza, al mio essere in quel luogo e in quel momento».

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