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«Il terremoto ci spaventa così tanto perché in pochi secondi interrompe il nostro rapporto quotidiano con la terra, simbolo di stabilità e di continuità, dove stanno le nostre radici anche emotive, quelle infantili, con le prime esperienze di movimento. Diversamente da altri fenomeni naturali avversi (come le frane e le alluvioni) si origina lontano dai nostri occhi, “sotto la terra che ogni giorno calpestiamo”, scriveva Kant, e quindi lontano dalla nostra percezione diretta. Allo stato attuale delle conoscenze però possiamo solo conoscerne gli effetti e studiarne le tracce».
A raccontarcelo è Emanuela Guidoboni, nota e apprezzata storica sismologa. Conosce tutti i terremoti che si sono abbattuti sul nostro Paese, anche quelli che la memoria ha cancellato facendo, erroneamente, ritenere alcune regioni immuni dal rischio sismico. Ha curato importanti ricerche internazionali e diretto il Catalogo dei forti Terremoti in Italia e nell’area del Mediterraneo.

LEGGI: CONVIVERE CON IL TERREMOTO, LO SCIAME SISMICO NELLA PRESILA CATANZARESE

È da pochi giorni in libreria per Rubbettino l’edizione italiana, aggiornata e notevolmente ampliata rispetto all’originale francese, di un suo libro scritto a quattro mani con Jean-Paul Poirier dal titolo Storia culturale del terremoto, dal mondo antico a oggi.
In questi giorni visita spesso la nostra regione perché curatrice del Museo del Terremoto di Soriano Calabro di prossima apertura.
«È un progetto del Comune avviato diversi anni fa, che ha avuto una prima fase di elaborazione nel 2015, e ora è ripartito per consentirne l’apertura – ci spiega – La concezione di Museo che sta alla base di questo progetto non è quella tradizionale, di un luogo di conservazione di testimonianze artistiche o di culture locali; vuole essere piuttosto un punto di riferimento stabile per la conoscenza del problema sismico della Calabria e del contesto italiano. Soriano mi era sembrato il luogo ideale, perché conserva ancora rovine del terremoto del 1783, e proprio qui è localizzato uno dei cinque epicentri di quella devastante crisi sismica. Il Museo del terremoto, i cui locali si trovano in un’ala del Monastero dei Domenicani, che è in parte ipogea – un luogo quasi della mente – dovrà essere di tutti i calabresi, dove potranno curiosare nel passato e imparare a conoscere i terremoti e i maremoti della loro regione dal punto di vista scientifico e storico. Si può imparare questo passato entro un percorso con immagini e supporti multimediali interattivi, quindi anche divertendosi. Il Museo del terremoto è un’opera aperta, per così dire, e spero che possa avere la possibilità di crescere e di accogliere nuovi approfondimenti e temi correlati ai disastri, come quello delle ricostruzioni e delle risposte sociali».
Preoccupati dal continuo sciame sismico che si sussegue oramai da giorni nella Presila catanzarese, le chiediamo se non siamo in prossimità di quella che sembra essere una tragica e piuttosto regolare scadenza:

1638, 1783, 1905, … la successione dei terremoti catastrofici in Calabria sembra seguire una cadenza tutto sommato regolare. È davvero così professoressa?

«Direi di no, è piuttosto un effetto del tempo che noi stessi modelliamo, e che le nostre dimenticanze ci inducono a ritenere “regolare”. Per esempio, prima del 1905, che lei ricorda, c’è stato il forte terremoto del 1894 poi, dopo il 1905, si è abbattuto il 1907 nella Calabria meridionale ionica, e subito dopo accadde la catastrofe del 1908. Una sequenza micidiale, che può apparire irregolare dal punto di vista cronologico. Non conosciamo ancora abbastanza i terremoti per rilevare andamenti prevedibili. Sappiamo dalla storia e dalla geologia che i terremoti di alta energia avvengono in Calabria più frequentemente che in altre regioni italiane e che tendono a innescarsi l’uno con l’altro e accadere a “grappoli”, piuttosto che in sequenze cronologiche regolari. Quindi ci sono periodi di calma relativa (un terremoto di piccola o media energia può sempre accadere), e periodi di “tempeste”, come è successo alla fine del Settecento nella Calabria centrale e meridionale, oppure tra il 1832 e 1887, dal Crotonese al Cosentino, con ben sei terremoti distruttivi; o all’inizio del Novecento, nella Calabria meridionale».

Dell’ultimo disastroso terremoto verificatosi in Calabria conserviamo solo i racconti e qualche foto seppiata, ma di quelli più recenti accaduti in Italia centrale (Umbria e Marche 1997; Abruzzo 2009; Emilia Romagna 2012 e, ancora, Amatrice 2016) abbiamo la vivida immagine delle riprese televisive. Sono stati fenomeni sismici che hanno in qualche misura avuto un effetto scioccante sul nostro Paese che erroneamente considerava solo il Sud (forse per la presenza dei due grandi vulcani, l’Etna e il Vesuvio) a rischio sismico eppure, guardando alla storia anche queste regioni avevano subito dei terremoti in passato, perché se n’era persa memoria?

«Sì, la conoscenza storica in questo è inesorabile, e per noi che studiamo i terremoti del passato– per stimare la pericolosità – purtroppo non ci sono state sorprese. Sappiamo dove sono accaduti e quindi dove accadranno i prossimi, ma non sappiamo quando. Nelle aree che lei ha citato, erano già accaduti non pochi forti terremoti. Penso che da parte di chi ha responsabilità istituzionali ci sia un deficit di impegno per diffondere tali conoscenze, per informare adeguatamente gli abitanti e per sollecitare risposte adeguate. Questo deficit riguarda tutte le aree sismiche del Paese. Chi sono i responsabili? Penso alle Regioni, ai Comuni, i cui sindaci sono anche i capi della protezione civile dei loro territori; penso alla scuola, all’università, la grande assente nel volano formativo-informativo sui disastri naturali, chiusa nei suoi specialismi disciplinari. Insomma, se si perde memoria in modo così esteso, c’è un concorso di cause, si direbbe in un processo. L’Aquila è un esempio per me sconcertante: basti ricordare che la città sta realizzando la sua sesta grande ricostruzione! Le precedenti riguardarono i terremoti del 1315, 1349, 1461, 1703, 1915. Eppure troppo spesso, all’indomani di distruzioni sismiche si sente dire: “noi non sapevamo”. È su questo che occorre lavorare, a tutti i livelli».

Discutendo di tali tragedie può sembrare un’osservazione cinica, eppure non posso esimermi dal notare come nel racconto dei media e nell’opinione pubblica nazionale ogni qual volta che una qualsiasi catastrofe abbia colpito una regione del Sud si sia finito per colpevolizzare gli stessi abitanti, rei di abusivismo, di scarsa cura del territorio. I terremoti e le alluvioni che hanno colpito negli anni recenti il Centro-Nord hanno invece rivelato un paese più fragile di quello che si credeva a qualsiasi latitudine…

«Indicare casi di malgoverno fuori casa (e preferibilmente al Sud) fa sentire più assolvibili o assolti. Certo non è così: anche le regioni del nord e del centro patiscono politiche territoriali e urbanistiche che non hanno tenuto conto dei caratteri geologici naturali e dei processi di degrado ambientale già da tempo innescati. Per il rischio idrogeologico, pensiamo all’eccessivo consumo di suolo, alla tombatura di fiumi e torrenti per mera speculazione edilizia, alle troppe costruzioni su pendii franosi (Liguria, Campania, messinese…); pensiamo all’abbandono di coltivazioni tradizionali o di tradizionale manutenzione delle aree interne, che rischiano lo spopolamento. Tutto il Paese purtroppo ha fragilità ambientali e urbanistiche rilevanti, assieme a vulnerabilità edilizie preoccupanti: tutto ciò dovrebbe diventare il nodo centrale di politiche amministrative e culturali convergenti, per prevenire e limitare futuri danni, perdite di vite umane e di beni».

Quanto detto mi fa pensare che nel nostro Paese il tempo abbia la capacità di levigare coscienze e memoria. Accade così che in Italia anche dove si sono succedute grande sciagure simili la vita sia ripresa senza fare tesoro di quanto accaduto…

«Il passare del tempo, di per sé, ha una funzione quasi naturale di “smemorizzazione” dell’accaduto. Anche il ricordo di un disastro sismico, come di una guerra, si sfoca, sprofonda nella lontananza e diventa inutile al presente di una società, quindi si cancella. Questo fenomeno sociale ha conseguenze importanti per i disastri sismici, perché i terremoti accadono indipendentemente da noi e ritornano, perché fanno parte del carattere geologico stabile di un territorio. Se ne perdiamo memoria, siamo sprovvisti di difese. Si può contrastare questa dimenticanza con lo studio di tali eventi e capendone le cause. Un disastro sismico infatti non è solo opera della natura, ma anche e soprattutto, degli uomini. I disastri accadono quando la vulnerabilità dell’edificato è tale da non reggere allo scuotimento dei suoli. La vulnerabilità è il vero killer che fa di un forte terremoto un disastro».

Da studiosa ha spesso l’occasione di confrontarsi con studiosi di altri Paesi e su quanto viene fatto altrove per prevenire i disastri causati dai terremoti. A che punto è l’Italia?

«A mio parere le istituzioni competenti fanno poco e spesso male quel poco. Non basta mettere su qualche progetto nazionale per diffondere una volta all’anno informazioni di base. Occorre continuità e soprattutto contenuti, che vadano oltre alle pur necessarissime indicazioni di comportamento da tenere in caso di scosse o di maremoti. Nel nostro Paese anche terremoti di bassa magnitudo possono diventare disastri, perché il patrimonio edilizio abitativo e i nostri beni culturali sono molto vulnerabili, per vetustà, ma anche per inosservanza di buone regole costruttive e per mancanza di manutenzione. Manca l’informazione di base, che dovrebbe essere parte di una cultura del rischio, tutta da formare. Manca perfino un piano nazionale di prevenzione, chiaro e condiviso, che dovrebbe essere elaborato e proposto dallo Stato e concordato con le regioni e con la società civile, da realizzare in un orizzonte di quindici o venti anni e con qualsiasi governo si succeda. Tale piano, ben al di là dell’attuale insufficiente e casuale sistema fiscale del “sisma bonus”, sarebbe un volano economico di straordinaria portata con effetti nel presente e nel futuro».

Non crede tuttavia che quello che rappresenta una delle ricchezze principali del nostro Paese, ossia la disponibilità di centri storici spesso molto antichi e ancora molto abitati, costituisca in questo caso un vero e proprio handicap che penalizza l’Italia rispetto ad altri luoghi del pianeta?

«È un problema, non c’è dubbio, ma non un impedimento. Penso infatti che occorra puntare sulla cultura del rischio, per rendere gli abitanti, non solo orgogliosi dei loro borghi e paesi, ma anche consapevoli dei rischi che ipotecano il futuro loro e dei loro figli. Ripartire dalla conoscenza è la base sicura».

Professoressa, guardando il bicchiere mezzo pieno, dobbiamo tuttavia osservare come i terremoti – pensiamo solo a quello che è accaduto in Calabria con il grande sisma del 1783 – siano stati talvolta causa di grandi cambiamenti culturali e sociali che hanno in alcuni casi portato anche a spinte in avanti notevoli…

«Sì, alcuni forti terremoti sono stati delle opportunità economiche e sociali, e potrebbero esserlo anche oggi e in futuro. Ma non è detto: occorre un contesto sociale in grado di favorire una spinta verso il futuro, occorrono ceti dirigenti che sappiano programmare ben al di là della breve portata cronologica degli attuali mandati politici. Nella storia, un disastro sismico si è trasformato in opportunità di crescita quando la necessità di sopravvivere e di ricostruire si è incrociata con interessi convergenti, economici e culturali di lunga portata. Per queste svolte è necessaria una visione del mondo condivisa da più ceti, coinvolti e interessati al futuro. Oggi, una distruzione sismica porta con sé l’incubo dell’abbandono, della perdita irrimediabile, della marginalità, e questo sia per individui, sia per comunità di paese, come sembra stia accadendo in alcune parti dell’Italia centrale, colpita nel 2016. Eppure siamo più ricchi, più organizzati, ne sappiamo di più che in passato. Ci dovremmo domandare cosa non funziona nel nostro attuale modello di ricostruzione».

La «Storia culturale del terremoto», che lei e il prof. Poirier avete pubblicato di recente, ricostruisce anche la lunga storia delle varie interpretazioni che gli uomini hanno cercato di dare ai fenomeni sismici, alcune molto fantasiose, per la verità. Ce n’è una che l’ha in qualche modo affascinata più delle altre e perché?

«Il percorso delle idee in questo settore è tutto affascinante e poco noto anche agli storici della scienza. La teoria che ho trovato più curiosa e durata solo mezzo secolo, è l’elettricismo, ossia l’idea che i terremoti fossero causati da una grande scossa elettrica sotterranea, simile a quella del fulmine atmosferico. Franklin aveva appena inventato il parafulmnine nel 1751 e la fantasia degli scienziati che aderirono all’elettricismo per alcuni decenni non ebbe limiti: progettarono torri paratteremoto come un grande parafulmine rovesciato, pensarono di usare il legno nelle costruzioni essendo un materiale non conduttore – anche la famosa “casa baraccata” calabrese del 1784 era ispirata a questa concezione; pensarono perfino di isolare le case dal terreno, concetto oggi applicato con gli isolatori sismici, in tutt’altro contesto scientifico»

C’è anche chi ha cercato di spiegare il carattere degli individui con la sismicità delle aree in cui vivevano. Gli psichiatri positivisti, per esempio, ritenevano che tra i calabresi fosse diffusa l’epilessia perché il corpo tendeva ad assorbire questo carattere “ballerino” dalla terra. Alcuni studiosi contemporanei invece attribuiscono all’instabilità causata dai terremoti quel senso di provvisorietà che in Calabria si respira ovunque e di cui i pilastri di cemento armato che svettano nudi contro il cielo e che puntellano il paesaggio sono un esempio eloquente…

«Quello del rapporto tra carattere dei calabresi e sismicità è un grande tema dei letterati e degli antropologi, penso soprattutto agli scritti di Vito Teti. Quando alcuni decenni fa ho iniziato a studiare la Calabria dei terremoti, le devastanti e diffuse distruzioni, le lunghe e travagliatissime ricostruzioni, ho iniziato a capire che intere generazioni di calabresi sono vissute senza casa, o in un’estesa precarietà abitativa, o nell’attesa di ricostruzioni poi non realizzate nell’ambito della loro vita. Ho percepito che la casa per i Calabresi è un “sogno genetico”, per così dire, da realizzare a ogni costo, forse molto più che per il resto degli Italiani. Tuttavia, quei pilastri di cemento spogli, quelle case mai finite, che non ci piacciono e che confliggono con la nostra estetica del paesaggio, a me raccontano anche un’altra storia: quella di un futuro da costruire a ogni costo – per figli, nipoti, commerci – una sorta di mano meccanica per afferrare una sicurezza che è sempre è sfuggita».

Un’ultima richiesta: un suggerimento, se vogliamo, per il nuovo governo regionale che si sta per insediare

«La Calabria dovrebbe essere capofila nella prevenzione del rischio sismico, specie per l’urgenza del problema, che ritengo allo stato attuale sottovalutato dai politici e dagli amministratori, e forse anche poco conosciuto. Se fossi calabrese, oggi temerei di più un terremoto di media energia, come quelli accaduti e dimenticati, nel 1975 e 1979 nel reggino, che un evento epocale, tutto sommato raro. I terremoti medio-piccoli ossia di intensità epicentrale di VII grado MCS più o meno sono quelli a più alta probabilità. E un terremoto “piccolo” oggi farebbe molti danni in qualsiasi punto della Calabria. Penso anche ai maremoti della Calabria, il cui rischio oggi è molto più elevato che in passato per l’uso turistico delle coste e delle spiagge».

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