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IL primo «martire» cristiano della mafia è un siciliano. Ma la sua vicenda riguarda anche la Calabria: «Riconsocere formalmente come martirio l’omicidio di don Pino Puglisi è un messaggio chiaro per tutti i cristiani che vivono in contesti segnati dalla criminalità organizzata: ora non c’è più spazio per l’ambiguità» afferma Vincenzo Bertolone, arcivescovo di Catanzaro ma siciliano d’origine e postulatore della causa di canonizzazione del sacerdote palermitano. 

 

Nel documento che Benedetto XVI ha firmato e consegnato al cardinale prefetto della Congregazione delle Cause dei santi, viene infatti riconosciuto che gli assassini di don Puglisi hanno agito «in odio della fede». Un’espressione che, nella terminologia ecclesiale, significa che è stata la predicazione del Vangelo da parte del parroco di Brancaccio a causare la sua morte violenta, in quel 15 settembre del 1993 in cui compiva 56 anni. Ed è per questo che il decreto di martirio, che permetterà di proclamare don Puglisi beato senza attendere il riconoscimento di un miracolo, costituisce per Bertolone «uno spartiacque assoluto per la Chiesa». 

 

Dopo il «convertitevi» che Giovanni Paolo II gridò ai mafiosi nel corso della sua visita ad Agrigento del 1993, l’atto formale sottoscritto da Benedetto XVI, secondo l’arcivescovo, «smaschera la falsa religiosità dei mafiosi, rimarca la totale incompatibilità della vita cristiana con le situazioni in cui cercano di infiltrarsi gli interessi della criminalità organizzata». Don Puglisi, infatti, «tolse potere al dio dei mafiosi con la sola forza del Vangelo: non si schierò contro qualcuno, ma educò le coscienze e non si tirò mai indietro». E questo esempio, insiste Bertolone, coinvolge in particolare «la Chiesa che opera nei territori in cui è presente la criminalità organizzata, sia essa la mafia o la camorra o, come avviene in Calabria, la ‘ndrangheta».

 

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