X
<
>

La testimonianza in aula di un collaboratore di giustizia

Condividi:
5 minuti per la lettura

COSENZA – I soldi dei corleonesi investiti nell’hinterland cosentino. A Mendicino per la precisione: piccolo centro delle Serre cosentine a pochi chilometri dal capoluogo dove Cosa nostra avrebbe concluso l’acquisto di alcuni appartamenti.

Due covi che potrebbero essere serviti, in passato, per ospitare il più famigerato degli inquilini: l’imprendibile Matteo Messina Denaro alias “Diabolik”, 59 anni di cui gli ultimi ventotto da latitante, attuale e indiscusso capo dei capi. Di questo e altro parla il pentito Luigi Paternuosto, di professione cuoco, ma anche ex azionista di un clan cittadino che dal 2011 collabora con la giustizia. Durante un interrogatorio Paternuosto racconta di quando due emissari di Totò Riina e Messina Denaro piombano in città per concludere l’acquisto delle abitazioni. «So che l’affare andò in porto, ma non so indicare dove siano questi appartamenti. Si trovano comunque sulle quattro strade di Mendicino, prima di arrivare al paese».

Secondo Paternuosto, gli inviati da Corleone si rivolgono a loro in virtù dell’amicizia che legava Totò Riina a Domenico Cicero, capo del gruppo di San Vito ora ergastolano che, già alla fine degli anni Novanta era uscito assolto da un processo che lo vedeva sotto accusa per traffico d’armi insieme al boss di Brancaccio, Filippo Graviano.

Proprio in quel periodo, a detta dell’ex cuoco, matura l’amicizia con Riina tant’è che, una decina d’anni più tardi, gli uomini di zu Totò si sarebbero ricordati di Cosenza per concludere i loro investimenti immobiliari. L’idea che quelle abitazioni servissero proprio a nascondere qualche latitante, compreso l’inafferrabile “Diabolik”, sembra trovare riscontro nel sequestro di beni per 22 milioni di euro, effettuato sempre nel 2011, a scapito di un gruppo di siciliani finiti in manette due anni prima con l’accusa di aver favorito la latitanza del superboss.

E nell’elenco di beni sottratti loro dagli inquirenti, figuravano alcuni appartamenti ubicati proprio a Mendicino. L’esistenza di un’asse Palermo-Cosenza, dunque, potrebbe essere ben più di una semplice suggestione. Del resto, l’abbraccio tra la malavita bruzia e le famiglie Corleonesi si realizza già sul finire del secolo scorso, ai tempi in cui in città imperversa la banda Bartolomeo-Notargiacomo.

Il contatto avviene nel 1985 all’interno del carcere di Trani dove Stefano Bartolomeo, Dario Notargiacomo e suo fratello Nicola sono reclusi per l’omicidio di Sergio Cosmai. Lì entrano in confidenza con Antonino e Pino Marchese, esponenti della famiglia che all’epoca regna su corso dei Mille a Palermo. Si accompagnano durante le ore d’aria concesse ai detenuti ed è proprio nel cortile del penitenziario, tra una passeggiata e l’altra, che giungono alla conclusione foriera di buoni presagi: «Noi siamo una cosa sola». Per l’omicidio del direttore del carcere, avvenuto l’anno prima, Dario, Stefano e Nicola sono stati condannati all’ergastolo, ma in appello saranno assolti per insufficienza di prove e così, nel 1988, tornano a essere degli uomini liberi.

Scatenano una guerra di secessione dal gruppo Perna del quale in origine facevano parte e, in quel contesto, l’appoggio dei siciliani risulta per loro molto prezioso. I Marchese, infatti, appartengono alla famiglia di Filippo Graviano, signore del quartiere Brancaccio. Antonino era imparentato con Leoluca Bagarella e suo fratello Pino è il killer preferito di Totò Riina prima di diventare, nel 1992, il primo pentito nella storia dei Corleonesi.

A loro è molto vicino Stefano Bartolomeo che, oltre a dividere la stessa cella con Antonino, si è ulteriormente legato a lui con un comparaggio. I Notargiacomo, invece, sono intimi di Marcello Tutino, Cristofaro “Fifetto” Cannella e di Giovanni Drago, un altro che prima di diventare collaboratore di giustizia ha commesso più di quaranta omicidi. Insomma amicizie di spessore delle quali avrebbero fatto tesoro nel settembre del 1989, dopo il rovinoso attentato subito dai Bartolomeo.

I due fratelli, infatti, restano a lungo in fin di vita e, una volta dimessi dall’ospedale scelgono proprio la Sicilia come buen ritiro per sfuggire a ulteriori rappresaglie. Il gruppo si trasferisce in un residence di Buonformello, in provincia di Palermo dove, per garantirne la completa guarigione, i Corleonesi mettono a disposizione il loro medico personale. Il perché di tutte queste attenzioni è presto detto: tra calabresi e siculi, infatti, è in corso un traffico di armi che da Cosenza, passando per Lamezia, arrivano nell’Isola.

Carichi di kalashnikov e di Uzi vanno a ingrossare l’arsenale di zu Totò, mentre pistole e fucili già utilizzati dai mafiosi sono riciclati nella guerra che i Bartolomeo-Notargiacomo stanno combattendo contro l’ex casa madre. Proprio quel conflitto si conclude nel 1991 con la disfatta dei ribelli. I Bartolomeo cadono nel tranello di una finta pace ordita dai rivali che, dopo averli attirati con un pretesto, li fanno sparire con il metodo della lupara bianca.

I Notargiacomo, invece, riescono a salvare la pelle dandosi alla latitanza, ma ben presto gli viene meno anche l’ultimo appiglio al quale si sono aggrappati. I loro amici della Sicilia, infatti, voltano loro le spalle. Si è appena pentito Pino Marchese e nella mente dei due fratelli in fuga, cresce la convinzione di essere diventati scomodi agli occhi di Cosa Nostra. Non si sbagliano.

Poco tempo dopo, la collaborazione di Dario e Nicola permette agli inquirenti di imbastire l’inchiesta “Ferry boat” che fa luce su quel traffico di armi tra Calabria e Sicilia e le loro confessioni, confermate da quelle di Drago e Marchese, portano alle condanne, fra gli altri, degli stessi Graviano, Bagarella e Riina. Ed è così che, tra una guerra perduta e un tradimento, si conclude il gemellaggio tra ’ndrangheta cosentina e mafia siciliana. A volte, però, ritornano.

Condividi:

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

EDICOLA DIGITALE