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L’uomo, dal carcere di Novara, è stato portato direttamente in una località segreta con moglie e figlio. Genitori e suoceri hanno rifiutato il programma di protezione

di MICHELE INSERRA

COSENZA – Si sono dissociati e per questo motivo hanno rifiutato il programma di protezione. Nella località segreta in cui è stato tradotto direttamente dal carcere di Novara, dove era ristretto al 41 bis, il presunto boss Daniele Lamanna, 42 anni, è quasi solo. O meglio con lui ci sono gli affetti più stretti: la moglie e il figlio minorenne. Altri suoi diretti familiari, genitori e suoceri, hanno deciso di non condividere la scelta di collaborare con la giustizia.

Le distanze vanno prese anche se il pentito è un pezzo da novanta negli ambienti della criminalità organizzata cosentina. Non è la prima volta che accade nella storia del pentitismo e di certo non sarà nemmeno l’ultima. Una scelta realmente non condivisa o soltanto un’operazione di facciata? Saranno gli ulteriori accertamenti investigativi a stabilirlo, così come risulterà importante valutare la credibilità delle dichiarazioni rese dal nuovo collaboratore di giustizia.

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Convinzione o strategia? Sta di fatto che il pentimento dell’uomo-chiave nel clan degli zingari ha creato scompiglio in città. Ha molte cose da raccontare Daniele Lamanna. Faccende che riguardano ogni ambito della vita cittadina. Dalle estorsioni agli omicidi, dalle tangenti allo spaccio di droga, dall’usura alla politica. Lui sa tutto e di tutti. Soprattutto di quanto vissuto negli ultimi anni in prima persona, sino al periodo di latitanza e al successivo arresto nel marzo dello scorso anno a Trenta, nella Presila. Ha visto, sentito e stretto mani. Le sue dichiarazioni potrebbero causare un terremoto giudiziario che porterebbe a riscrivere buona parte della storia criminale e degli affari in terra bruzia.

A maggio dello scorso anno i suoi difensori di fiducia avevano chiesto la revoca della misura cautelare per incompatibilità con il regime carcerario visto che era stato sottoposto ad un intervento chirurgico delicato all’ospedale “Pugliese” di Catanzaro dove gli era stata curata una grave patologia gastrointestinale.

L’uomo era accusato di associazione di stampo mafioso ed estorsione. Ma la sua posizione giudiziaria si aggravò. Era stato accusato dal pentito Adolfo Foggetti dell’omicidio di Luca Bruni, il figlio del boss “Bella bella”. Responsabilità sull’esecuzione di morte che ha trovato un ulteriore riscontro nelle parole di un neo collaboratore di giustizia, Franco Bruzzese. Dopo Foggetti e Bruzzese, Lamanna rappresenta la ciliegina sulla torta per la Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro. Per il pubblico ministero Pierpaolo Bruni ci saranno fiumi di verbali da vagliare e riscontrare. Si prevede tanta carne a cuocere per i prossimi mesi.

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