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Il cadavere di Denis Bergamini

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COSENZA – C’è una cosa che la medicina legale non può spiegare: cosa ci fa Donato Bergamini sulla Strada Statale 106, il 18 novembre del 1989, intorno alle 19? È più o meno a quell’ora che da lì si trova a passare Rocco Napoli, ventenne di Montegiordano.

Il giovane è alla guida di un furgoncino e vede il calciatore muoversi pericolosamente sull’asfalto, tanto da rischiare di investirlo. A travolgerlo sarà invece Raffaele Pisano, sopraggiunto pochi minuti dopo a bordo del proprio autocarro dopo aver vinto il ballottaggio con Francesco Forte, un altro camionista che lo tallona a breve distanza e che, poco prima, si è lasciato sorpassare dal futuro indagato.

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“Penso spesso al fatto che avrei potuto investirlo io” dirà anni dopo Forte, vittima di un tormento che non ammette anticorpi. È la seconda verità del caso Bergamini: quella che, attenendosi alla cronaca di quel giorno, ammanta di casualità l’intera vicenda, ma finisce poi per scontrarsi con l’altra verità ricostruita in laboratorio dagli specialisti nominati dal gip Teresa Reggio. Si tratta, almeno per ora, di due verità difficilmente conciliabili tra loro.

I medici legali, infatti, sostengono che il calciatore del Cosenza sia stato prima narcotizzato, poi soffocato senza lasciare segni e, infine, posizionato sull’asfalto a coronamento di una messinscena durata pochi minuti.

“Al massimo undici” affermano i camici bianchi, con il camion, dunque, che avrebbe investito un Bergamini già morto oppure in fin di vita. All’arrivo di Rocco Napoli, però, Bergamini è certamente vivo. E soprattutto è da solo.

Il testimone lo coglie proprio nell’attimo in cui scende dalla sua Maserati, ferma nella piazzola di sosta con Isabella Internò nell’abitacolo, e si dirige verso la carreggiata. “Ma lo avete visto? Vuole farsi ammazzare?” dirà poi Rocco alle due donne che viaggiano con lui, entrambe mezze addormentate, ma ridestatesi a seguito della sua brusca sterzata. E da quando vanno via loro all’arrivo di Pisano, passano anche meno di undici minuti.

Pochissimi, a dramma ormai compiuto, sono poi i minuti che precedono l’ingresso in scena di un altro testimone, quel Mario Panunzio con moglie incinta e suocera al seguito che accompagnerà Isabella al bar. Presenza importante la sua, anche solo a riprova di come in quel 1989, la Ss 106– una sola carreggiata a doppio senso di marcia – sia strada trafficatissima; non certo il luogo adatto, dunque, per diventare teatro di una cospirazione assassina, peraltro con una pattuglia dei carabinieri a soli tre km da lì, impegnata in un posto di blocco.

Ma tutto questo i medici legali non lo sanno e non devono neanche saperlo (per il tipo di lavoro loro affidato); in questo caso la scienza sembra infittire il mistero piuttosto che essere decisiva per risolverlo.

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