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Antonio Piccirillo

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NEGLI ambienti della mala napoletana, per tutti lui è il figlio di Rosario “o biondo”, il boss di Torretta che riscuoteva il pizzo tra i pontili di Mergellina, di recente condannato in via definitiva per associazione mafiosa. Ma Antonio Piccirillo, 26 anni, assomiglia a suo padre solo per il colore dei capelli, chiarissimi e folti, quasi da divo di Hollywood.

Perché lui di avere a che fare con la camorra non ne ha mai voluto sapere. E così si è sfilato dall’abbraccio tentacolare della criminalità organizzata, deludendo le aspettative di parenti e amici che gli chiedevano di raccogliere il testimone di suo padre e seguire le sue orme.

Ospite due giorni fa di A.i.me.pe. – l’associazione dei Mediatori penali che ha sede nazionale a Cosenza – prova a spiegare ai corsisti presenti, e ai ragazzi in collegamento video della comunità terapeutica “L’ulivo” di Tortora, che cosa è stata per lui la vita da figlio di un mafioso.

La sensazione di smarrimento, di dolore, di sofferenza che si è trascinato dietro come un bagaglio non richiesto, eppure sempre presente. La rabbia a lungo trattenuta per le ingiustizie subite, che ha ingoiato con rassegnazione, quasi fossero mali inevitabili. «A 17 anni ero in giro con i miei cugini e stavamo dando fastidio a uno straniero: ci fingevamo poliziotti, gli chiedevamo i documenti. Ma era una ragazzata, non volevamo fargli nulla di male. Invece la polizia mi ha fermato, arrestato con l’accusa di furto e portato in comunità, dove sono stato per un anno. Oggi posso dire con forza che ero innocente, e quello è stato un modo delle forze dell’ordine per rivalersi su mio padre».

Il suo no alla mafia Antonio lo urla forte e chiaro ad un megafono due anni fa, durante una manifestazione di protesta indetta a Napoli all’indomani di una sparatoria tra camorristi in cui viene ferita per sbaglio una bambina di quattro anni. A quel punto il fardello già gravoso di dolore, sofferenza e smarrimento si carica di un nuovo peso: quello della paura. La paura delle minacce, delle ripercussioni per sé e per i suoi familiari, persino della morte.

«Quando ho pubblicamente preso le distanze dalla Camorra – racconta alla platea di A.i.me.pe – i compagni di detenzione di mio padre gli dicevano: tuo figlio si è dissociato, sei un morto che cammina. La gente per strada mi sputava addosso, mi chiamavano infame. E io per cinque mesi non sono più andato a trovarlo, per il terrore di incontrare altri camorristi». Il rapporto con sua madre, indignata per quel gesto che vive come un tradimento, si incrina, suo padre si dibatte in carcere tra l’impulso di difenderlo e la fedeltà assoluta al codice mafioso. Antonio è solo, lui e i suoi demoni, ma continua senza sosta a ripetere lo stesso mantra, quello che scandisce a più riprese anche durante l’incontro: «La camorra fa schifo, non ha valori, non ha etica, non è mai stata pulita, non ha mai avuto una morale. Voglio bene a mio padre, ma mi rifiuto di sposare la sua linea d’azione».

Oggi il figlio di Rosario “o biondo” insegue il suo sogno di legalità e giustizia. Inizierà a breve un corso proprio con A.i.me.pe, per diventare mediatore penale. «Voglio lavorare con i minori – dice con lo sguardo sognante – sento di poter capire il loro dramma, visto che in qualche modo è stato anche il mio». Dopo tanto tempo è riuscito a perdonare suo padre, col quale sostiene di avere adesso un rapporto che definisce «sincero, libero, leale».

Forse, appena sporcato da un antico e mai sopito rimpianto: «Con noi è sempre stato buono, ma lo abbiamo vissuto troppo poco; ricordo ancora quando da bambino speravo di vederlo all’uscita di scuola. La sofferenza è la quotidianità per il figlio di un camorrista».

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