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Il giornalista Alessandro Bozzo

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COSENZA – Due anni e mezzo di condanna a fronte dei quattro mesi stabiliti in primo grado.

È questa la pena richiesta ieri in Appello nei confronti dell’imprenditore Pietro Citrigno, già editore di “Calabria ora” poi “L’ora della Calabria”, sotto accusa per violenza privata ai danni di Alessandro Bozzo, un giornalista di quel quotidiano suicidatosi il 15 marzo del 2013.

Dopo la requisitoria del sostituto pg Salvatore Di Maio, in aula hanno discusso l’avvocato Nicola Rendace in rappresentanza della famiglia Bozzo, parte civile nel processo, e il collegio difensivo dell’imputato. La sentenza sarà pronunciata il prossimo 20 settembre, a cinque anni esatti da quella di primo grado. 

La vicenda trae origine dai fatti del 15 marzo 2013, giorno in cui Bozzo decide di porre fine alla sua esistenza terrena con un colpo di pistola alla tempia nella sua abitazione di Marano Principato. Sul tavolo, c’è una lettera scritta di suo pugno in cui afferma di essere stanco della vita, ma pochi giorni più tardi dai suoi effetti personali rimasti in redazione – e consegnati dallo stesso Citrigno ai familiari – salta fuori un diario che fotografa la situazione di profondo disagio da lui vissuta sul posto di lavoro. 

Ad aprile del 2012, infatti, il giornale per cui lavora gli ha cambiato il contratto: non più a tempo indeterminato bensì in scadenza alla fine dell’anno. Bozzo è costretto ad accettare le nuove condizioni lavorative, pena il licenziamento, e in seguito proprio questa vicenda occuperà un ruolo centrale nelle accuse ipotizzate a carico del suo ex editore.

Non a caso, ieri lo stesso Di Maio ha evidenziato come a suo avviso, il reato da contestare a Citrigno fosse quello “di estorsione”, ma tant’è: inizialmente aperta con l’ipotesi di induzione al suicidio, l’inchiesta si era focalizzata sulla violenza privata una volta esclusi collegamenti diretti tra la drammatica scelta del cronista e le sue difficoltà lavorative.

Rispetto a quest’ultime, in aula, si erano espressi numerosi suoi colleghi, rievocando il rapporto tormentato tra lui e l’editore e soprattutto l’incubo del licenziamento che, logorandolo, lo aveva accompagnato nei suoi ultimi mesi di vita.

Alla fine del processo la Procura di Cosenza aveva espresso il proprio disappunto per un verdetto ritenuto troppo «mite»: la condanna invocata dalla pubblica accusa, infatti, ammontava a quattro anni di reclusione e, in vista del secondo round giudiziario, l’ufficio diretto da Mario Spagnuolo aveva presentato Appello per ottenere un inasprimento della pena a carico dell’imprenditore.

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