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Antonio Taranto

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COSENZA – L’uccisione di Antonio Taranto, avvenuta il 29 marzo del 2015, avrebbe scongiurato il rischio di una scissione nel clan dei nomadi.

Un sospetto già emerso in passato grazie alle dichiarazioni del pentito Giuseppe Montemurro e rinverdito ieri in aula da altri due collaboratori di giustizia, Luciano Impieri e Giuseppe Zaffonte, convocati proprio sulla scena del processo che tenta di far luce sull’omicidio di Taranto. Anche Zaffonte e Impieri, infatti, parlano di una riunione successiva al delitto durante la quale i fedelissimi di Maurizio Rango da una parte e quelli di Antonio Abbruzzese detto “Strusciatappine” dall’altra, decidono di archiviare i rancori reciproci che, da mesi, rischiano di innescare una faida interna al gruppo.

Sulle ragioni della frattura tra Strusciatappine e il resto dei nomadi, si erano già espressi in passato altri pentiti – Silvio Gioia e Mattia Pulicanò in primis – riconducendo i dissapori a una sparatoria tra membri delle rispettive fazioni, seguita da accuse incrociate sulla gestione della “bacinella”. Ipotesi a parte, a un certo punto l’aria sarebbe diventata così elettrica da indurre alla preparazione di un attentato, rimasto poi incompiuto, ai danni dello stesso Strusciatappine.

Con tali fermenti sullo sfondo, il 29 marzo una pallottola vagante centra alla schiena il 28enne Antonio Taranto che di quel contesto criminale era parte integrante, sia in termini di rapporti d’amicizia che di partecipazione ad attività illecite, seppur non come figura di primo piano.

Il sospetto è che sia stato vittima proprio delle turbolenze che quella sera di marzo inducono il suo gruppo d’amici, fedeli alle posizioni di Rango, a litigare in discoteca con i rivali. Alla rissa seguirà la resa dei conti in piazza Lento culminata poi in dramma. E si arriva così alla famigerata riunione.

«Strusciatappine disse che bisognava mettere una pietra sopra a quell’omicidio» rievoca Impieri specificando di aver appreso de relato le informazioni in suo possesso, a differenza di Zaffonte che a quel summit sostiene di aver partecipato in prima persona come accompagnatore di Rinaldo Gentile, l’emissario del clan degli italiani.

«Si decise la non belligeranza – afferma Zaffonte – per evitare attenzioni dall’autorità giudiziaria e dalle forze di polizia». Per la morte di Taranto è a giudizio Domenico Mignolo. La sua condanna a 18 anni di carcere è stata annullata dalla Cassazione che ha ordinato un replay del processo d’appello tuttora in corso.

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