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Il Tribunale di Cosenza

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COSENZA – Emil Dimitrov, bulgaro senza fissa dimora, ha cinquant’anni suonati quando, l’11 giugno del 2021, se ne va a spasso su viale Giacomo Mancini, in un pomeriggio assolato e con un pensiero fisso che gli gira in testa: fare la mano morta alle signore. Stanno per avere inizio i suoi ventitré minuti di follia.

Alle 14 in punto incontra una donna che si reca al lavoro e, dopo esserle strisciato alle spalle, parte la palpatina. La reazione è di puro istinto, una gomitata in pieno volto, che tramortisce Emil senza, però, impedirgli di rivendicare il gesto: «Scusa, ma hai un bel culo. Dovevo toccarlo». E fugge via, rapido come una gazzella.

Alle 14,23 ne incontra un’altra che sta rincasando e il copione si ripete. Le appoggia la mano sul fondoschiena e davanti allo sbigottimento iniziale di lei, resta lì a fissarla in silenzio per alcuni secondi. «Hai un bel culo» le ripete prima di darsela nuovamente a gambe. Stavolta però Emil viene inseguito e la donna, che è in contatto telefonico con i carabinieri, lo nota infilarsi nell’hotel Centrale, allora occupato da altri senzatetto, dove in seguito sarà rintracciato per essere poi tradotto in carcere.

Un anno dopo, in tribunale si celebra il processo relativo a quei fatti e la Procura chiede la sua condanna per violenza sessuale, pur riconoscendogli le attenuanti in virtù dell’incensuratezza e del non aver arrecato gravi danni alle vittime, sia fisici che psicologici.

Ciò nonostante, la richiesta di pena rimane severa: tre anni e sei mesi. Delle due vittime, solo una si è costituita parte civile nel processo, e il suo avvocato Rosa Cosentino contesta la valutazione del pm sui traumi riportati dalla sua assistita che, ad avviso del legale, sono documentati in termini clinici, ragion per cui chiede un risarcimento del danno subito.

L’ultimo a prendere la parola in aula è il difensore dell’imputato, Guido Siciliano, che dando per scontata la responsabilità di Emil – all’arresto aveva fatto seguito anche la confessione – punta a ottenere due risultati: una pena più mite e, soprattutto, una misura meno afflittiva del carcere. Dimitrov, infatti, è dietro le sbarre da quell’11 giugno e, Siciliano, subentrato nella sua difesa solo di recente, da un lato stigmatizza l’atteggiamento dei numerosi avvocati d’ufficio che prima di lui hanno avuto Emil come cliente e che, probabilmente, si sono disinteressati della sua condizione; dall’altro evidenzia l’impossibilità che lo stesso si renda responsabile di altri reati analoghi: da diversi mesi, infatti, è costretto su una sedia a rotelle a causa di una malattia degenerativa.

«Ci rivediamo fra dieci minuti» comunica il giudice Francesco Luigi Branda ai presenti, e dopo una camera di consiglio flash, la sua decisione è la più salomonica possibile: due anni e mezzo di condanna, riconoscimento del danno alla parte civile e arresti domiciliari concessi all’imputato.

Quest’ultimo ha seguito tutte le fasi del processo in videocollegamento dal carcere di Reggio Calabria e gli tocca ora indicare un domicilio presso il quale scontare il resto della pena, ma c’è un problema: non sa dove andare. Ha una sorella che vive in provincia di Cosenza e una zia in Campania, ma necessita di assistenza in tutte le attività quotidiane, anche quelle più elementari, e nessuna di loro può prendersi cura di lui. Non lo dice espressamente, ma è così.

«Un domicilio devi indicarlo» lo sollecitano dall’aula, ma il giudice ha capito al volo e revisiona il provvedimento appena emesso: resterà in carcere finché non troverà una sistemazione adeguata, possibilmente una clinica specializzata.

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