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Sono 67 le ordinanze di custodia cautelare in carcere che i finanzieri del Gico di Catanzaro e dello Scico di Roma e i carabinieri del Comando provinciale di Cosenza stanno eseguendo in Calabria, Lombardia e altre regioni italiane. I provvedimenti emessi dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, sono a carico di altrettanti appartenenti e affiliati ad una pericolosa organizzazione ‘ndranghetistica con base nell’alto Ionio cosentino. Alle persone coinvolte nell’operazione, denominata «Santa Tecla», vengono contesti i reati di associazione mafiosa, estorsione, usura, traffico e spaccio di sostanze stupefacenti. In corso anche il sequestro di beni mobili, immobili, attività commerciali e conti correnti bancari per un valore complessivo di circa 250 milioni di euro. Parallelamente alle indagini di polizia giudiziaria, i finanzieri del servizio centrale investigazione sulla criminalità organizzata (S.c.i.c.o) di Roma e del Gico di Catanzaro, hanno condotto anche indagini economico-finanziarie, grazie alle quali è stato possibile di ricostruire in capo ai principali indagati notevolissimi complessi patrimoniali costituiti, prevalentemente, da beni immobili, attività commerciali e quote societarie, detenuti sia direttamente sia attraverso l’impiego di prestanome.

I provvedimenti di sequestro preventivo emessi dal g.i.p. del tribunale di Catanzaro, su richiesta della locale procura distrettuale, riguardano 48 società di capitali o di persone ed imprese individuali operanti principalmente nel settore dell’edilizia e degli appalti e della distribuzione di prodotti di cartoplastica; 69 fra appartamenti e ville; 68 terreni; 55 veicoli; numerosi rapporti bancari e polizze vita. L’operazione «Santa Tecla» prende il nome dall’omonima via ubicata nel centro di Milano, proprio a ridosso del duomo dove, in alcuni locali pubblici, membri dell’organizzazione si davano appuntamento per concludere accordi e definire strategie circa la gestione del traffico di stupefacenti tra il Nord-Italia e la Calabria.

Inizialmente, infatti, le indagini miravano a disarticolare un gruppo criminale dedito al traffico e allo spaccio di sostanze stupefacenti nel territorio della piana di Sibari ma con importanti ramificazioni anche nel capoluogo meneghino. Le investigazioni hanno subito rivelato che l’approvvigionamento, lo stoccaggio e la distribuzione dello stupefacente avvenivano sistematicamente sotto l’egida del «locale di corigliano», da diversi anni attivo nell’alto Ionio cosentino. Al comando dell’organizzazione sarebbe stato, fino alla data della sua uccisione avvenuta il 10 giugno 2009, Antonio Bruno, 59 anni, detto, «giravite», il quale era subentrato nella posizione di vertice a seguito della decapitazione della precedente leadership ad opera delle forze di polizia e della magistratura. Durante il suo ultimo periodo di detenzione, le redini dell’organizzazione coriglianese sono state affidate, anche su volere del clan degli zingari di Cassano, ed in particolare del loro capo abbruzzese Franco detto «Dentuzzu», a maurizio Barilari, 41 anni. Barilari è stato arrestato il 16 luglio .2009 dai carabinieri nell’ambito dell’operazione denominata «timpone rosso» condotta contro il cosiddetto «clan degli zingari» attivo nell’alto ionio cosentino. Secondo quanto emerso dalle indagini, gli zingari di Cassano erano in collegamento con il locale di Corigliano tramite proprio Maurizio Barilari, che avrebbe avuto un ruolo di «mediazione» tra le cosche, occupandosi anche di estorsioni e di traffico di stupefacenti. Altra posizione di rilievo all’interno del clan coriglianese, secondo gli inquirenti, era ricoperta da Pietro Salvatore Mollo, 41 anni, che, unitamente al cognato Alfonso Sandro Marrazzo e ad altri sodali, avrebbe avuto un ruolo di assoluto rilievo nel traffico di droga gestito dalla cosca nonchè in diverse attività estorsive e usurarie.

Infatti, sebbene all’interno del «locale» di Corigliano fossero stati individuati altri personaggi come referenti unici del traffico di stupefacenti o della raccolta del denaro a titolo estorsivo (in primis Maurizio Barilari), Antonio Bruno dopo un primo periodo di forti contrasti, aveva finito per tollerare le suddette ingerenze criminali da parte di Pietro Salvatore Mollo in quanto quest’ultimo corrispondeva direttamente a lui parte dei proventi derivanti dalle sue attività illecite, anzichè versarla nelle casse dell’organizzazione. All’interno dell’organizzazione coriglianese emergerebbero anche altri personaggi di elevato spessore criminale, tra cui Antonio Marrazzo, 67 anni, e Pietro Longobucco Marrazzo, 43, detto «’u iancu». Nel corso delle indagini, i finanzieri di Catanzaro hanno portato a termine una decina di interventi repressivi in Calabria e nel milanese sequestrando, di volta in volta, quantitativi di cocaina ed eroina, arrestando in flagranza 6 corrieri. Le indagini inoltre, hanno consentito di riscontrare l’esistenza di una sistematica attività estorsiva ai danni di numerosi imprenditori locali realizzata dalla cosca coriglianese, soprattutto tramite la figura di Barilario il quale, attraverso l’interposizione di imprese da lui direttamente o indirettamente controllate, ha potuto dissimulare trasferimenti illeciti di denaro originati dalle estorsioni, attraverso operazioni commerciali di comodo risultate in tutto o in parte inesistenti.

I PARTICOLARI

Traffico di droga con il nord Italia e estorsioni erano i principali settori in cui operavano gli affiliati alla cosca di Corigliano sgominata stamani. L’inchiesta ha permesso di aggiornare la composizione e gli equilibri interni al clan, di ricostruire una lunga serie di reati, fra cui numerosi episodi estorsivi, e di risalire a persone, tutte incensurate, che si prestavano a farsi intestare fittiziamente beni ed attività economiche acquisite con il reimpiego di denaro accumulato illecitamente. Le indagini iniziate nel 2007, sono partite da un giro di droga tra la Calabria e la Lombardia. A Milano, in particolare, i componenti dell’organizzazione si davano appuntamento in locali pubblici di via Santa Tecla (da qui il nome dell’operazione) per concludere accordi e definire strategie sulla gestione del traffico di droga che veniva gestito dal «locale» di Corigliano. Le indagini portate avanti con intercettazioni telefoniche ed ambientali, hanno permesso di riscontrare le dichiarazioni dei pentiti, tra i quali figurano Carmine Alfano, cognato e collaboratore di fiducia sino al 2006 di Maurizio Barilari, ritenuto il capo della cosca; Vincenzo Curato; Giorgio Basile; Giovanni Cimino; Antonio Cimino; Giampiero Converso e Tommaso Russo. A capo del «locale», secondo quanto emerso dalle indagini, c’era Antonio Bruno, detto «giravite», ucciso il 10 giugno 2009. Durante il suo ultimo periodo di detenzione, le redini dell’organizzazione erano state date, anche su volere della cosca degli zingari di Cassano, ed in particolare del capo Franco Abbruzzese, detto «dentuzzu», a Maurizio Barilari, arrestato il 16 luglio del 2009 dal Ros dei carabinieri. Barilari avrebbe fatto da tramite tra la cosca di Corigliano e gli zingari di Cassano. Un altro ruolo di rilievo era occupato da Pietro Salvatore Mollo, di 41 anni, che insieme al cognato Alfonso Sandro Marrazzo (41), avrebbe avuto un ruolo di assoluto rilievo nel traffico di droga e in diverse attività estorsive e usurarie. Dalle dichiarazioni dei pentiti e dalle indagini è emerso che Mollo, insieme a Marrazzo, aveva costituito una propria rete di smercio di stupefacenti su Corigliano, parallela alla rete di distribuzione «ufficiale» del clan, grazie anche agli appoggi di cui godeva da parte di esponenti di vertice della cosca Farao-Marincola di Cirò. Una situazione che aveva generato forti contrasti interni con i vertici del «locale» di Corigliano.

COINVOLTI I FRATELLI DEL SINDACO STRAFACE

Tra le persone arrestate ci sono anche Mario e Franco Straface, imprenditori e fratelli del sindaco di Corigliano, Pasqualina Straface, del Pdl. Sarebbero accusati di un’estorsione compiuta nell’ambito della realizzazione di un villaggio turistico in localita Thurio. In particolare, secondo l’accusa, il titolare della societa’ che stava realizzando la struttura, e’ stato costretto da Maurizio Barilari, ritenuto il capo della cosca di Corigliano, ad affidare un appalto milionario, prima per la sola fornitura del cemento e poi per tutta l’opera, alla Straface Srl di Mario e Franco. I due imprenditori hanno poi scelto le imprese subappaltatrici che hanno fatturato alla ditta Straface importi non dovuti grazie ai quali sono stati creati fondi neri girati poi alla cosca. Secondo l’accusa, i fratelli Straface, con l’appoggio dei vertici della cosca, hanno imposto all’imprenditore condizioni economiche tali da determinare un aggravio di spesa superiore al 20% dell’importo dei lavori.

LE DICHIARAZIONI DI 7 PENTITI

L’operazione Santa Tecla è stata compiuta anche grazie alle dichiarazioni di 7 collaboratori di giustizia: Carmine Alfano , fra l’altro cognato e collaboratore di fiducia del capo clan Maurizio Barilari sino al 2006; Vincenzo Curato ; Giorgio Basile; Giovanni Cimino; Antonio Cimino; Giampiero Converso, Tommaso Russo. Le investigazioni sul campo, durate oltre tre anni, (dalla fine del 2007 ad oggi), sono state condotte, con grandi sacrifici, attraverso l’utilizzo di tecniche investigative e di ricerca della prova che hanno permesso di riscontrare l’apporto dei pentiti. È stato quindi possibile delineare ed aggiornare la composizione e gli equilibri interni al clan, ripercorrendone la storia criminale e gli avvicendamenti al vertice. In particolare, è stato possibili ricostruire una lunga serie di reati commessi dagli esponenti dell’organizzazione, fra cui numerosi episodi estorsivi, in merito ai quali sono state individuate e documentate le modalità attraverso cui la cosca imponeva a imprenditori della zona l’esborso di consistenti somme di danaro a titolo di «pizzo». Gli inquirenti sarebbero anche risaliti alle persone, tutte incensurate, che si prestavano ad interporsi fittiziamente nell’intestazione di beni ed attività economiche acquisiti tramite il reimpiego di danaro illecitamente accumulato dalla consorteria criminale e molto spesso utilizzate per la commissione di attività estorsive.

UNA SOCIETA’ di CALCIO PER RICICLARE I PROVENTI DELL’USURA

C’era anche una società di calcio al centro del sistema adottato dal «locale» di Corigliano per riciclare i soldi provento di attività illecite ed in particolare delle estorsioni. Si tratta dello Schiavonea ’97. Sevondo al ricostruzione Fabio Barilari, di 39 anni, fratello di Maurizio, indicato come il capo della cosca, dal 2001 era titolare di un’impresa di tinteggiatura di edifici commerciali e rappresentante legale della società calcistica. Entrambe le società, attraverso l’emissione di fatture per operazioni inesistenti in tutto o in parte fornivano la copertura contabile al denaro che illecitamente arrivava nelle casse della cosca dalle estorsioni. Il sistema utilizzato era quello di simulare l’esecuzione di lavori di tinteggiatura. Il compenso fatturato era in realtà l’importo dell’estorsione imposta all’imprenditore committente dei lavori. Con la società di calcio, secondo l’accusa, veniva utilizzato il sistema delle sponsorizzazioni.

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