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Denis Bergamini

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È possibile che Bergamini fosse già morto prima di essere travolto dal camion con Pisano alla guida? Un quesito attorno al quale l’inchiesta della Procura di Castrovillari si è avvitata per anni, ma invano. Il primo ad avanzare sospetti al riguardo è il professor Giovanni Pierucci, consulente tecnico della famiglia del calciatore, che analizzando i reperti della prima autopsia del ’90, rileva l’assenza di «spandimento ematico nei tessuti», il che gli suggerisce la presenza di lesioni inferte a un corpo già privo di vita.

Com’è morto allora Denis? «Ucciso all’arma bianca» azzarda il consulente, avanzando poi l’ipotesi che il passaggio della ruota sia servito proprio a mascherare i segni di una lama. Anche Roberto Testi, il perito scelto dalla Procura, analizza i vetrini di Avato e definisce «più che verosimile» l’assenza di vitalità nelle lesioni, ma con alcune avvertenze: si tratta di una tecnica sperimentale che non offre certezze scientifiche e, in più, andrebbe applicata su campioni freschi e non vecchi di vent’anni. E non solo. Il colore del sangue– «in alcuni punti più bluastro» – rovescia la tesi: Bergamini era ancora vivo. Esclude poi l’utilizzo di coltelli o altri oggetti appuntiti dei quali, in caso contrario, Avato avrebbe trovato traccia.

C’è poi Giorgio Bolino che opera sempre per conto del pm titolare delle indagini. Anche lui discetta di «non vitalità dei tessuti», ammettendo come il cromatismo del sangue immortalato nelle foto suggerisca l’esatto contrario, ma supera l’ostacolo paventando che Bergamini, nell’attimo dell’investimento, possa essere stato in fin di vita – «Forse narcotizzato» – e, dunque, impossibilitato a difendersi.

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Si procede per tentativi ed è sempre Bolino a introdurre una nuova pista: quella del soffocamento, compatibile, a suo avviso, con il quadro di «sofferenza polmonare» emerso dall’autopsia del ’90, ma giudicato poco rilevante ai fini del decesso sia da Avato che da Testi. Fin qui i due consulenti svolgono il compito separatamente, ma in virtù dei risultati contraddittori, il pubblico ministero Maria Grazia Anastasia, decide di farli lavorare insieme. Ne viene fuori una perizia a doppia firma in cui si ribadisce come ogni valutazione sia «impossibile da proporre in termini di assoluta certezza o elevata affidabilità».

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Entrambi escludono il passaggio di strumenti da taglio sul corpo di Denis e trovano un punto d’incontro sull’eventualità di un soffocamento. Il risultato finale descrive un quadro compatibile con quello di «una morte per asfissia meccanica», ma senza «reperti che lo dimostrino in modo perentorio»; anzi, loro stessi sollevano il dubbio che a danneggiare i polmoni possa essere stata solo la «putrefazione» in virtù di quell’autopsia eseguita cinquanta giorni dopo il decesso. Proprio il presunto soffocamento, comunque, pare sia il punto di partenza delle nuove indagini, stando almeno alle dichiarazioni rilasciate in tv dal procuratore capo Eugenio Facciolla. L’imminente riesumazione della salma, infatti, sembra voler approfondire soprattutto questo aspetto. Una soluzione già prospettata nel 2015, ma alla quale il gip Annamaria Grimaldi non ha inteso ricorrere, ritenendo di avere a disposizione già tutti gli elementi per stabilire «l’assoluta infondatezza della notizia di reato».

Tra le mani, infatti, il giudice ha delle perizie discordanti, teorie di medicina sperimentale e una raffica di sospetti fugati dalle indagini; di contro, c’è poi un plotone di testimoni (Panunzio, Napoli, Forte, il brigadiere Barbuscio) che, ognuno a modo suo, conferisce casualità agli eventi del 18 novembre 1989, facendo della Statale 106, al km 401, tutto fuorché la scena di un crimine. Se da un lato, però, la tesi dell’omicidio si scontra, almeno fin qui, contro l’iceberg delle evidenze, dall’altro anche spiegazioni alternative – suicidio? incidente? – risultano difficili da spiegare. Ed è proprio questa, forse, la cifra di un “mistero” che dura da ventotto anni.

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