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Ardea la famiglia Fusinato: Carol e Domenico con Daniel e David

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COSENZA – È una storia di sangue quella dello scorso 13 giugno ad Ardea, alle porte di Roma. Sangue che scorre, quello dell’assassino e di tre vittime innocenti fra cui David e Daniel, rispettivamente di 5 e 10 anni; e altro sangue ancora che ribolle di tormento. E di dolore.

È sangue calabrese quello del trentenne Domenico Fusinato, il papà dei due bambini, un particolare fin qui adombrato dai dettagli laceranti di una vicenda che diciassette giorni dopo continua a suscitare orrore e sgomento come nella prima ora.

La famiglia è originaria di Cosenza, più precisamente di Rende, dove da tanti anni è proprietaria di un’edicola a Commenda, luogo di ritrovo per intere generazioni di adolescenti e adulti.

Il padre di Domenico, Alberto, nell’ultimo quarto di secolo si è segnalato più volte all’attenzione della cronaca per reati dei quali è considerato una sorta di pioniere insieme al fratello, omonimo di suo figlio: truffe in internet, clonazione di bancomat e carte di credito e altri raggiri informatici dei quali i due Fusinato erano considerati veri e propri maestri.

Da più di un decennio ormai, il nonno di David e Daniel si era stabilito nel Lazio, in quel di Ostia, con al seguito i propri congiunti ed era stato arrestato proprio pochi giorni prima della mattanza, da semilatitante per scontare un residuo di pena, risparmiandosi così lo strazio di assistere all’uccisione dei suoi nipotini.

Quello, piuttosto, è toccato a suo figlio, presente sul posto, che ne ha raccolto l’ultimo respiro, stringendo loro la mano per accompagnarli nell’aldilà.

Vita accidentata la sua, che già da giovanissimo lo ha visto prima finire impelagato negli affari illeciti del padre per poi essere assorbito da un giro criminale più impegnativo e insidioso. Era sospettato di essere contiguo alla delinquenza organizzata ostiense, Domenico, e per questo motivo si trovava, suo malgrado, ristretto ai domiciliari per fatti di droga.

Lo era anche quel giorno fatale, quando un’altra esistenza breve e sofferta, quella di Andrea Rignani, giunta all’acme del ghigno, avrebbe trovato il modo di funestare per sempre la sua vita e quella della sua famiglia.

È una domenica qualunque quella del 13 giugno di Ardea se non fosse che sull’asfalto c’è il sangue di Daniel.

Il suo buon sangue. Giocava a calcio, faceva il portiere, pare avesse talento e a che a lui fosse già interessata la Lazio. Aveva un sogno grande abbastanza da cancellare gli errori degli adulti della sua famiglia, un sogno così grande da riscattare il mondo.

Il mondo, però, non si riscatta. E sa anche essere molto crudele con gli innocenti.

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