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Il rogo sviluppatosi nel centro storico di Cosenza e che è costato la vita a tre persone

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Quello che rimane, e quello che invece occorre chiarire, dopo uno dei più clamorosi fatti di cronaca dell’ultimo decennio

di LUCA ADDANTE

SONO due mesi dal rogo che ha divorato Antonio Noce, Serafina Speranza, Roberto Golia e il loro cane. Uno dei più clamorosi fatti di cronaca avvenuti negli ultimi decenni a Cosenza (LEGGI LA NOTIZIA). Era dai tempi degli arresti dei No-global del 2002, e della grandiosa manifestazione che organizzammo in difesa della libertà del dissenso, che la città non appariva sulle prime pagine di tutti i giornali nazionali. Ed è evidente dalla reazione della cittadinanza che è una delle ferite più gravi nella nostra storia recente. È doveroso, pertanto, tenere altissimo il livello dell’attenzione. Per il rispetto dovuto alle vittime; e per evitare alla comunità l’ennesima piaga non sanata. I morti e la coscienza collettiva dei cosentini impongono, insomma, che si trovi il bandolo della matassa. E se non resta per ora che sperare nel lavoro degli inquirenti per accertare le responsabilità di eventuali omicida e (se esiste) mandante, si può scrivere la parola fine sulla connessa vicenda della biblioteca bruciata, che pure ha segnato l’immaginario e sulla quale sono circolate svariate leggende, alimentate dalla stampa e dai social.

Essendo venuto in possesso dell’inventario analitico delle opere e di foto che le ritraggono, credo mio dovere informarne i lettori. La biblioteca era composta da oltre 700 tomi, datati tra il Cinquecento e l’Ottocento. Inoltre, c’erano dei manoscritti, tra cui uno di Aulo Giano Parrasio e un altro di Antonio Telesio: scritti risalenti al primo ’500, vergati da due dei più importanti personaggi della storia cosentina. Pergamene e ritratti completavano il fondo, ma erano i libri la parte più significativa. Essi erano disposti in sette librerie e una bacheca, con opere di Casanova e Victor Hugo, di Metastasio e Parini, di Racine e Carducci, di Dante e De Sanctis…

Ma era il nucleo calabro-cosentino a dare l’identità alla biblioteca. A parte l’edizione del De rerum natura di Bernardino Telesio su cui ho già scritto, c’era l’opera principale di Tommaso Cornelio, uno dei protagonisti della Rivoluzione scientifica. Testi di Sertorio Quattromani, succeduto a Telesio alla guida dell’Accademia cosentina; di Marco Aurelio Severino, uno dei principali medici del Seicento europeo; e un volume del cardinale e giurista Pietro Paolo Parisio, fra i presidenti d’assemblea al Concilio di Trento. Ancora, c’era un libro di Domenico Bisceglia, ministro e martire della Repubblica napoletana del 1799. Un’edizione del ’700 delle rime del grande poeta del ’500 Galeazzo di Tarsia. E poi: testi di giuristi e pensatori politici del ’600 come Giovanni Antonio Palazzo, etc. etc. Un patrimonio di tutto rispetto – soprattutto per i cosentini – andato in fumo. Di fronte all’irreparabile, c’è da augurarsi che ciò possa spingere le autorità a risolvere l’annosa questione dell’agonizzante Biblioteca Civica, che è il principale fondo esistente sulla storia della città. E a ben vedere, anche su altri aspetti questa maledetta vicenda potrebbe segnare al contempo un tornante positivo. I morti e i libri bruciati, infatti, non li potrà mai restituire nessuno. Ma la gravità straordinaria del fatto potrebbe anche agire da pungolo.

In primis, ovviamente, è urgente risolvere il caso. Che la città non si trovi a convivere con gli ennesimi omicidi irrisolti, quali quelli di Roberta Lanzino e Denis Bergamini. Vicende che segnano la comunità, che ha bisogno di giustizia per nutrire il rispetto dovuto alle istituzioni. Pur se si è trattato di un assassinio, inoltre, non v’è dubbio che la morte sia potuta così prosperare a causa delle disastrose condizioni della città antica. Ora, apprendo che il sindaco Occhiuto ha finalmente deciso di occuparsi seriamente del centro storico, che è la nostra più grande risorsa per divenire una meta turistica; oltre che il monumento della storia da cui discendiamo: le pietre della nostra identità. Di certo, un’azione decisa sarebbe il modo migliore (insieme al trionfo della giustizia) per esorcizzare i fantasmi delle vittime e dei libri divorati dal fuoco. Proprio per questo, però, mi chiedo intanto se siano stati effettuati controlli per verificare la stabilità della struttura aggredita dal rogo. Anche a fronte d’un sequestro giudiziario, infatti, è evidente che se la stabilità fosse stata compromessa dall’incendio ci sarebbe un serio problema d’incolumità pubblica, trattandosi d’edificio prospiciente una strada transitata da pedoni e automezzi.

Inoltre, c’è anche un problema di salvaguardia d’un bene culturale, poiché la struttura è molto antica, ben più di quanto sveli il suo aspetto attuale. Secondo alcuni, lì sorgeva l’antica torre campanaria del Duomo. I documenti finora addotti a sostegno della tesi, tuttavia, la rendono probabile ma non provata. Nondimeno, comunque si tratta d’un edificio medievale, poiché una bifora emersa all’interno risale al massimo al ’400. Ora, negli edifici della città antica sono rare le tracce visibili del Medioevo, nonostante la forma urbana del centro sia medievale. Incolumità pubblica e tutela dei beni culturali imporrebbero, quindi, di accertarsi se ci sia o meno un rischio di crollo. Le denunce della situazione drammatica in cui si trovavano i morti sono state diverse, non solo da parte di Roberto Bilotti. È purtroppo indubbio, pertanto, che la tragedia si sarebbe potuta evitare.

In un’ennesima denuncia risalente al 28 dicembre 2015, Bilotti si rivolse alla Procura della Repubblica, all’Asl, ai Vigili del Fuoco, alla Soprintendenza e ai Carabinieri, denunciando non solo le «condizioni igienico-sanitarie», e i «fetori» che rendevano «inabitabile» anche la sua residenza; ma, soprattutto, il fatto che «il fabbricato ha tutti i solai lignei, ed è alto il rischio incendio». Quelle denunce sono restate lettera morta e la morte ha prevalso, inesorabile. Non vorrei che altre inerzie burocratiche impedissero un doveroso controllo strutturale e aggiungessero ai lutti altri lutti.

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