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ESTATE 1959. Pier Paolo Pasolini percorre la costa italiana al volante di una Fiat Millecento. Le suggestioni, gli odori e le miserie di quel viaggio nell’Italia del dopoguerra diventarono un reportage di grande bellezza (“La lunga strada di sabbia”) pubblicato dalla rivista “Successo”, diretta da Arturo Tofanelli. Maestro di quel giornalismo “illustrato” che spopolava, quando la televisione era ancora merce di lusso. Nel 2001, il fotoreporter Philippe Séclier offrontò lo stesso itinerario. Nella prefazione del volume di foto d’autore che, in seguito, pubblicò per la casa editrice “Contrasto”, scrisse: «Ho voluto mettere i miei passi dietro ai suoi, vedere ciò che lui aveva visto, capito e sentito, lanciarmi a mia volta su quella strada in sua compagnia, seguendola come lui l’aveva descritta». Restò molto sorpreso, quando in un vecchio salone di barbiere di Cutro vide esposta una gigantografia di Pasolini. Non se lo aspettava. Perché Pier Paolo Pasolini aveva descritto con durezza di pensiero e di linguaggio quel piccolo centro, presentandolo come il “paese dei banditi”. Le reazioni ai suoi articoli furono immediate, taglienti e distruttive. Anche a livello istituzionale. Fino al punto che il sindaco della cittadina catanzarese, il ragionier Vincenzo Mancuso, democristiano, presentò querela per diffamazione a mezzo stampa nei confronti dello scrittore presso la Procura della Repubblica di Milano.
Che cosa aveva scritto sulla Calabria, Pier Paolo Pasolini, muovendosi lentamente attraverso le sue antiche strade polverose e solitarie?
«Lo Ionio non è mare nostro: spaventa. Appena partito da Reggio – città estremamente drammatica e originale, di una angosciosa povertà, dove sui camion che passano per le lunghe vie parallele al mare si vede scritto “Dio aiutaci”- mi stupiva la dolcezza, la mitezza, il nitore dei paesi sulla costa. Così fino a Porto Salvo. Poi si entra in un mondo che non è più riconoscibile. Vado verso Crotone, per la zona di Cutro. Illuminati dal sole sul ciglio della strada, due uomini mi fanno cenno di fermarmi. Mi fermo, li faccio salire. Mi dicono – questa è zona pericolosa, di notte è meglio non passarci. Due anni fa, in questo punto, hanno ammazzato a uno, un ricco signore, mentre tornava in macchina da Roma. Ecco, a un distendersi delle dune gialle in una specie di altopiano, Cutro. Lo vedo correndo in macchina: ma è il luogo che più mi impressiona di tutto il lungo viaggio. È, veramente, il paese dei banditi come si vede in certi film western. Ecco le donne dei banditi, ecco i figli dei banditi. Si sente, non so da cosa, che siamo fuori dalla legge, dalla cultura del nostro mondo, a un altro livello. Nel sorriso dei giovani che tornano dal loro atroce lavoro, c’è un guizzo di troppa libertà, quasi di pazzia. Nel fervore che precede l’ora di cena l’omertà ha questa forma lieta: nel loro mondo si fa così. Ma intorno c’è una cornice di vuoto e di silenzio che fa paura».
Pur davanti alla ferocia dei malevoli attacchi personali e delle crescenti polemiche politiche, destinate peraltro ad assumere un propagandistico rilievo nazionale, Pier Paolo Pasolini trattò con freddezza e distacco i suoi detrattori, evitando accuratamente di rispondere agli insulti e alle provocazioni. Fece sapere, anzi, che non avvertiva alcun disagio per quello che aveva scritto nei suoi “appunti di viaggio”. Concetto, questo, che ribadì sulle pagine di Paese Sera (28 ottobre 1959): «Anzitutto a Cutro, sia ben chiaro, prima di ogni ulteriore considerazione, il quaranta per cento della popolazione è stata privata del diritto di voto perché condannata per furto: questo furto consiste poi nell’aver fatto legna nella tenuta del barone. Ora vorrei sapere che cos’altro è questa povera gente se non “bandita” dalla società italiana, che è dalla parte del barone e dei servi politici? E appunto per questo che non si può non amarla, non essere tutti dalla sua parte, non avversare con tutta la forza del cuore e della ragione chi vuole perpetuare questo stato di cose, ignorandole, mettendole a tacere, mistificandole».
* * *
In realtà, Pier Paolo Pasolini, a qualcuno aveva spiegato le sue ragioni con lucida determinazione e altrettanta lucida consapevolezza della “geometrica potenza” delle sue parole. Lo aveva fatto privatamente. Fuori dai riflettori. Rispondendo alla “raccomandata” n. 3171 del 26 settembre 1959 che gli aveva spedito il dottor Pasquale Nicolini, ufficiale sanitario di Paola. Dello scrittore sappiamo tutto. Le sue capacità letterarie (Ragazzi di vita, Il sogno di una cosa, Una vita Violenta), cinematografiche (Accattone, Mamma Roma, Uccellacci e Uccellini), teatrali (Affabulazione, Medea, Porcile). La sua militanza intellettualmente scomoda nel Pci che, nel ’49, si affrettò ad espellerlo per corruzione di minorenni. L’anticonformismo che diventava provocazione estrema e apriva dibattiti infuocati sugli “studenti figli di papà” che si scontravano con i “poliziotti figli del popolo”. La vita spericolata conclusasi tragicamente sulla “lunga strada di sabbia” del litorale romano. Ma chi era il medico di quel borgo antico chiamato Paola che, pur rimproverandolo con tutta la forza dell’anima sua, si guadagnò la stima dello scrittore? Fino al punto che Pasolini, rispondendogli, non ebbe esitazione alcuna a definire “persona degna di ogni rispetto, e anche affetto”?
Era un galantuomo d’altri tempi. Un medico che considera la sua professione una missione e, quindi, la viveva come una testimonianza d’amore verso gli altri. Non pensava, però, che il suo dovere fosse questo. E solo questo. Andava oltre. Quale ufficiale sanitario stimolava gli amministratori comunali, affinché intervenissero nei quartieri popolari per rendere più salutari e decorose le condizioni della gente. A raccontarci del suo particolare impegno è un saggio inedito del 1958 (“Origini, problemi e prospettive della città di San Francesco”). Leggendolo, emerge la sua vocazione a promuovere il diritto alla salute delle classi più deboli. S’impegnò molto, infatti, perché si costruissero case popolari. Lo fece mettendosi in gioco come uomo di cultura e come ufficiale sanitario. Anche quando le autorità preposte accreditavano l’idea che quello dell’edilizia popolare, a Paola, fosse un problema pressoché risolto. Infatti, nel 1953, non ebbe difficoltà a scrivere al medico provinciale, suo diretto referente gerarchico, ed al prefetto di Cosenza: «A noi, invece, risulta che 700 famiglie vivono ancora in abitazioni malsane, dove il difetto d’aria e di luce, l’insufficienza di cubatura e la mancanza di qualsivoglia conforto igienico costituiscono un sempre più grave pericolo per la salute di chi vi abita».
La sua insistenza nasceva anche da un’altra preoccupazione: allontanare la gente dagli edifici pericolanti per le lesioni subite nel corso dei tragici bombardamenti aereo-navali dell’estate del ’43, che provocarono 55 morti e oltre 350 feriti. Alcuni dei quali persero la vita nei mesi successivi per la gravità delle menomazioni subite. «Da ciò – scriveva – non solo la necessità ma anche l’urgenza di un provvedimento radicale: non vorremmo che il già lungo elenco di vittime della guerra si arricchisca, a distanza di anni, di altri nomi, né vorremmo domani puntare l’indice contro chi abbiamo messo più volte sull’avviso del pericolo e delle proprie responsabilità». Parole forti che, in un certo senso, contrastavano con il suo carattere mite. Era uomo di pace, Pasquale Nicolini, benché avesse partecipato con onore e patriottismo alla seconda guerra mondiale. Proprio le sofferenze che aveva toccato con mano negli ospedali militari, infatti, avevano accentuato il suo intimo convincimento che le armi rappresentavano la risposta sbagliata ai conflitti che possono insorgere tra gli uomini ed i popoli. Nel suo pensiero altre erano le strade da percorrere: la giustizia sociale, l’amore per il prossimo, la bellezza interiore, l’etica della responsabilità e la preghiera come ineguagliabile opportunità di tenere vivo e fruttuoso quel soffio infinito che è dentro di noi. E fu proprio questo soffio d’infinito che era dentro di lui a consentirgli di superare la prova biblica di sopravvivere alla sua ultima figlia.
Pasquale Nicolini, infatti, era uomo di cultura che discuteva appropriatamente di scienze, letteratura, filosofia. Proprio in questa dimensione colta nasceva l’appassionata volontà di rendersi utile alla sua città e alla sua Calabria, che amava con la stessa intensità con cui amava la sua famiglia e la sua professione. Anzi, per Paola, diventava anche delicatissimo poeta. È il caso di un sonetto che scrisse nel 1955: «iu pienzu ca ci su dua paravisi…/ uno sta m’cielu…e l’atru è sta’ angulieddru / ca Dio à ncastratu cumu gemma rara / a li pirizzi di la ‘Palummara». E stimolava gli amministratori a rispettare le bellezze di questo paradiso in terra, muovendosi con garbo e cortesia, come fece in alcuni amichevoli versi che indirizzò al sindaco dell’epoca, Totonno Logatto: «Paula felix, terra d’incanto / perla che al mondo pari non v’ha! / deh, signor sindaco…siamone degni, / non deturpiamola…per carità!».
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Era, quindi, nel carattere di Pasquale Nicolini difendere con passione le cose belle della sua terra. Così, avendo letto il reportage di Pasolini, e volendone capire le più intime motivazioni, gli inviò una “raccomandata”. Gli scrisse, però, com’era nel suo stile. Senza usare toni o parole offensive. Al massimo si lasciò andare a qualche colpo di fioretto della sua colta ironia.
«Al signor Pier Paolo Pasolini, il suo resoconto “La lunga striscia di sabbia”, pubblicato nel numero di settembre di “Successo”, ha suscitato in Calabria un’ondata di risentimento, invero molto giustificato, del quale non so l’è giunta l’eco. Io preferisco scriverle personalmente, anche perché voglio aver la certezza ch’ella conosca il mio pensiero: sarò franco e sereno, e le sarò molto grato se vorrà rispondermi con uguale franchezza e serenità. Chi sa che non si possa giungere alla comprensione e… alla distensione! Molte volte si grava l’animo di rancori per interpretazioni errate o perché si va più in là delle intenzioni altrui. Non è così? Ella, dunque, percorrendo la “lunga strada di sabbia” della nostra Penisola, ha dato un fugacissimo sguardo alla costiera calabra e ne ha tratto delle conclusioni che certamente non ci fanno onore. Che il suo sguardo sia stato fugacissimo è provato dalla celerità con cui ha percorso detta strada. Verrebbe addirittura da pensare che da Maratea (che è in Lucania) a Reggio Calabria abbia viaggiato in “turboreattore”, se neppure si è accorto delle belle scogliere di Praia e Scalea, del paradiso di Cirella di Diamante piena di sole, di Belvedere e della sua Rosanville, di Cittadella del Capo semplice e romantica, della mia Paola panoramica e mistica, dello sperone di Tropea, di Bagnara, di Scilla. Ovvero – lo confessi! – nel tratto calabro – tirrenico, vinto dalla stanchezza, ha ceduto il volante al suo fotoreporter e si è accoccolato nelle braccia del buon Morfeo?»
«Così ella ha potuto dare una occhiata di scorcio solo a Reggio ed al resto del litorale jonico. Ma tanto è bastato per farle osservare che Reggio è città estremamente drammatica e originale, di un’angosciosa povertà, dove, sui camion che passano per le lunghe strade parallele al mare, si vedono scritte come “Dio, aiutaci”, che Cutro è veramente il paese dei banditi come si vede in certi westerns (ecco le donne dei banditi, ecco i figli dei banditi); che ivi si sente che siamo fuori dalla legge o, se non dalla legge, dalla cultura del nostro mondo, ad un altro livello… Dopo di che si è buttato di nuovo lungo lo straniero nemico Ionio, senza poter vedere, in centinaia e centinaia di chilometri di spiaggia, donne belle, ma soltanto delle femminucce nere e ineleganti, delle adolescenti gelatinose. E finalmente, uscendo dal Sud, ha sentito di qualificarlo “carfaneo sterminato, brulichio di miseri, di ladri, di affamati, di sensuali, pura e oscura riserva di vita”».
«Ma come ha potuto, signor Pasolini, emettere di tali giudizi sulla base di un rapido colpo d’occhio? Perché, guardi, la Calabria è veramente e dolorosamente povera e depressa, ma che, dai nostri camion gridi la sua invocazione a Dio per non perire, questo no! Anche perché è nella natura di noi calabresi un senso d’orgoglio, direi, smisurato (usi a soffrir tacendo)».
«Ed ora mi levi una curiosità: da che cosa ha potuto dedurre che Cutro è il paese dei banditi? Ha ospitato nella sua macchina due braccianti dall’aspetto poco rassicurante che le si sono invece rivelati due perfetti galantuomini. Nessuno, in quella spaventosa zona da western, lo ha rapinato o le ha avulso un capello, nessuno lo ha preso di petto e lo ha buttato ne “lo straniero nemico Ionio (povero ceruleo Ionio, culla d’antica civiltà, che agli itali desti, con la gloria, il nome delle tue genti!)”. Strano, poi, che proprio ivi, in vicinanza di Crotone, dove ancora splendono i fasti della Scuola Pitagorica, si sia sentito fuori dalla legge e dalla cultura del suo mondo (ch’è pure mondo d’alto livello). Strano davvero, perché c’è chi, nelle notti lunari, vede ancora aggirarsi, nei pressi della colonna di Hera Lacinia, le ombre del grande saggio e dei suo discepoli che vanno irrequiete dietro l’assillo di intendere le leggi, l’ordine e l’armonia totale dell’Universo».
«Ritorni per davvero, signor Pasolini, nella nostra povera ma bella e generosa Calabria. A Paola sarà mio gradito ospite. Vedrà tante cose belle che non ha visto e si persuaderà che una buona diagnosi presuppone delle indagini cliniche molto accurate. Sono certo che si ricrederà di molte cose e che non dirà più di noi che siamo un brulichio di miseri e di ladri, e che qua tutto è essenza negativa. Abbiamo le nostre miserie e i nostri difetti, ma abbiamo anche il nostro buon cuore, le nostre virtù e soprattutto il grande desiderio di essere considerati figli non demeriti di una madre comune».
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La risposta di Pier Paolo Pasolini non si fece attendere. Lo scrittore affidò il suo pensiero ad una missiva datata Roma, 1 ottobre 1959. I caratteri sono quelli di una “Lettera 22”, la macchina da scrivere portatile della Olivetti che andava di moda in quegli anni. Così come sono inconfondibili le correzioni autografe apportate da Pasolini.
«Gentile dottor Nicolini, devo dirle anzitutto: i banditi mi sono molto simpatici, ho sempre tenuto, fin da bambino, per i banditi contro i poliziotti e i benpensanti. Quindi, da parte mia, non c’era la minima intenzione di offendere i calabresi e Cutro. Comunque, non so tirare pietosi veli sulla realtà: e anche se i banditi li avessi odiati, non avrei potuto fare a meno di dire che Cutro è una zona pericolosa, ancora in parte fuori legge: tanto è vero che i calabresi stessi, della zona, consigliano di non passare per quelle famose “dune giallastre” durante la notte».
«Quanto alla miseria, non vedo perché ci sia da vergognarsene: non è colpa vostra se siete poveri, ma dei governi che si sono succeduti da secoli, fino a questo compreso (Governo Segni, ndr). E quanto ai ladri, infine: non mi riferivo particolarmente alla Calabria, ma a tutto il Sud. Sono stato derubato tre volte: a Catania, a Taranto e a Brindisi (sempre nelle cabine delle spiagge). In Calabria ho avuto una rapina a mano armata (di coltello): a cui sono sfuggito solo per la mia presenza di spirito. Queste cose ovviamente non le ho scritte, non solo per senso della litote, ma per non mettere nei guai i miei ladri e i miei rapinatori, che continuano ad essermi simpaticissimi (solo a Taranto, per colpa del bagnino, è intervenuta la polizia: ma io non ho voluto fare la denuncia contro il povero ladruncolo subito ritrovato)».
«Questi sono dati della vostra realtà: se poi volete fare come gli struzzi, affar vostro. Ma io ve ne sconsiglio. Non è con la retorica che si progredisce. Tutto questo lo dico a lei, perché mi sembra una persona veramente buona e simpatica, come i due che ho raccolto per la strada di Cutro, e che infine mi hanno salutato con “umanistica gentilezza” (queste erano le mie parole conclusive sulla mia fulminea Calabria: perché non ve ne siete voluti accorgere? È l’ultima parola quella che conto, no?). Del resto anche per quel che riguarda la costa tirrenica della Calabria, nella seconda puntata del mio viaggio, avevo avuto parole turisticamente lusinghiere…»
«Mi dispiace dell’equivoco: non si tiene mai abbastanza conto del vostro “complesso di inferiorità”, della vostra psicologia patologica (adesso non si offenda un’altra volta!), della vostra collettiva angesi, o mania di persecuzione. Tutto ciò è storicamente e socialmente giustificato. E io non vi consiglierei di cercare consolazioni in un passato idealizzato e definitivamente remoto: l’unico modo per consolarsi è lottare, e per lottare bisogna guardare in faccia la realtà. Mostri pure questa lettera ai suoi amici, la renda pubblica, magari la faccia anche stampare sui giornali che hanno polemizzato contro di me. Sono certo che sarò capito. Le ripeto: lei è persona degna di ogni rispetto e anche affetto, e, come tale, cordialmente la saluto, suo devotissimo Pier Paolo Pasolini»
* * *
Il dottor Pasquale Nicolini quella lettera non la mostrò agli amici. Non la rese pubblica. Non la inviò ai giornali che avevano polemizzato nei confronti di Pier Paolo Pasolini. Non lo fece neanche quando, qualche tempo dopo, scoppiò lo “scandalo” del premio letterario Crotone. Nella seduta del 12 novembre 1959, infatti, la giuria di cui facevano parte Carlo Emilio Gadda, Alberto Moravia, Giuseppe Ungaretti, Giorgio Bassani, Giacomo De Benedetti e Leonida Repàci, annunciò di aver assegnato a Pasolini il prestigioso riconoscimento per il romanzo “Una vita violenta”. Apriti cielo. “Il Messaggero della Calabria” scrisse: «Il Premio Crotone assegnato a chi ha offeso senza alcun ritegno l’onorabilità della cittadina crotonese e di Cutro». Non è da meno l’organo ufficiale della Dc, “Il Popolo”, secondo il quale «i comunisti di Crotone hanno tradito la Calabria». Politicamente la sostanza dei fatti è la seguente. Crotone e Cutro sono due cittadine a pochi chilometri di distanza l’una dall’altra. Politicamente, però, rappresentano due diverse realtà. La prima era la Stalingrado calabrese del Pci. La seconda, invece, era amministrata dalla Dc che, nella zona perde colpi, sotto l’incalzare della “minaccia comunista”.
È un bollettino di guerra. I gruppi di minoranza (Dc, Pli e Msi) si dimettono dal consiglio comunale di Crotone. I tre partiti, anzi, fanno affiggere manifesti che insultano Pasolini e “il milioncino” che “gli è stato regalato”. Il presidente della Provincia e della Corte di Appello di Catanzaro si dimettono dal comitato d’onore. Il prefetto, da parte sua, cerca affannosamente appigli procedurali per annullare l’assegnazione del premio «al romanzo del comunista Pasolini». La segreteria del Pci calabrese, applicando il teorema della “doppiezza” togliattiana, resta in silenzio. Però, “consente” alla Fgci di organizzare il servizio d’ordine necessario per proteggere il poeta durante la cerimonia di consegna del premio. Anche in quella circostanza, Pier Paolo Pasolini non indietreggiò. Anzi. Fece del suo romanzo, “Una vita violenta”, la dimostrazione compiuta della giustezza delle sensazioni che aveva riportato nel reportage “La lunga striscia di sabbia”. Infatti, si limitò a dire: «Sono felice di non avere vinto lo Strega o il Viareggio, perché considero quello che mi avete dato come il più adeguato riconoscimento alla mia opera. I protagonisti del mio romanzo, anche se vivono nella capitale, fanno parte del Mezzogiorno d’Italia, ed è giusto che, qui a Crotone, trovassero l’esatta comprensione, in una terra giovane, perché nasce ora alla vita sociale, e in modo fresco, genuino, prende coscienza della sua forza, dei suoi bisogni».
Pier Paolo Pasolini, permaloso com’era, cancellò la Calabria dalla sua agenda per cinque lunghi anni. Dopo le polemiche sul suo reportage e le tortuose vicende del premio Crotone, infatti, non accettò né inviti né riconoscimenti.
Ritornò nella “terra dei banditi” nel 1964. Da turista. In questo suo secondo viaggio, però, guardò con occhi più attenti e comprensivi alla nostra regione. Infatti, scrisse: «Il paesaggio calabrese si esalta, con i suoi meravigliosi contrasti naturali, in cui a dolci pendii si contrappongono violenti sbalzi rocciosi». E ancora: «In Calabria è stato commesso il più grave dei delitti, di cui non risponderà mai nessuno: è stata uccisa la speranza pura, quella un po’ anarchica e infantile, di chi vivendo prima della storia, ha ancora tutta la storia davanti a sé». Sembra che, nelle sue parole, riecheggino le amabili esortazioni che il dottor Pasquale Nicolini gli aveva rivolto nel ‘59. Racconta una leggenda metropolitana che, in quella occasione, lo scrittore, ormai protagonista dei salotti culturali romani, venne appositamente a Paola per stringere la mano a quella «persona degna d’ogni rispetto e anche affetto». Inutile chiedere conferme. Accontentiamoci di pubblicare in esclusiva, dopo più di mezzo secolo, la corrispondenza inedita tra il dottore e Pasolini.
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