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COSENZA – Il lago Cecita è unico al mondo per il suo orizzonte non circondato da montagne. Custodisce un incommensurabile patrimonio archeologico venuto alla luce alcuni anni fa. I ritrovamenti hanno proiettato la storia antica della Calabria in uno scenario nuovo, ancora da indagare per conoscere i protagonisti e le attività della preistoria calabrese in un contesto naturale di rara bellezza e ricchezza. La vicenda archeologica del Cecita ebbe inizio nel 2004 in seguito alla segnalazione di un’attività di scavo non autorizzata nella zona del lago. Dopo un accurato sopralluogo effettuato nell’area lacustre dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Calabria, furono scoperti importantissimi reperti in tutta la Valle del Mucone. Il grande valore della scoperta fece ottenere un finanziamento ministeriale di 25.000 euro, con i quali è stato possibile compiere gli scavi e riportare alla luce i resti di una civiltà che abitava la zona già nel Paleolitico antico. Il lago, che oggi è artificiale ed esiste dal secolo scorso, forse esisteva anche nel periodo a cui si riferiscono i ritrovamenti, come testimoniano non solo i pesi da pesca ritrovati, ma anche i molteplici insediamenti nella zona dovuti alla presenza di molta acqua. I manufatti ritrovati finora risalgono ad epoche diverse che coprono un lungo arco di tempo. 

Dal Neolitico all’antica età del Bronzo e poi fino alla tarda età romana, tutta la Sila fu occupata da insediamenti di agricoltori e pescatori. Il gran numero di fori ritrovati sul terreno ha fatto ipotizzare la presenza di pali, probabilmente conficcati nel terreno per reggere alcune capanne a forma di abside. Molti i vasi rinvenuti quasi integri durante gli scavi che presentano una singolare caratteristica: sono posti con l’apertura verso il basso. Alcuni di essi sono a bocca quadrata, simili a quelli dell’eneolitico iniziale ritrovati nel Nord Italia. La presenza di selci, asce litiche, fuseruole e macine fanno pensare che l’area sia stata frequentata da uomini che svolgevano attività agricole, domestiche e di transumanza. La fuseruola serviva a filare fibre tessili, forse provenienti dalla ginestra, mentre con la macina si trituravano le granaglie e le radici arrostite, poi trasformate in farina. Presenti anche le canne nella Sila preistorica a causa di un clima diverso da quello attuale, con temperature più elevate che favorivano il proliferare di latifoglie. Poche le punte di frecce ritrovate finora, fissate alle aste con la pix brettia, la grande ricchezza dell’altipiano. La pece bruzia era odorosa e preziosa e nell’età romana era fondamentale per la costruzione delle navi, delle armi, ma non solo, era usata anche per sigillare gli otri di vino e per curare alcune malattie. 
Era la ricchezza dei Brettii, veniva estratta dal pino laricio e usata soprattutto dai Romani per i quali costituiva una risorsa molto redditizia. A questo periodo risalgono statuette e steli, ritrovate insieme a monete romane, cioè sesterzi e quirinari argentei. Tutti i reperti sarebbero dovuti confluire nel Museo archeologico silano, a Camigliatello, come annunciato in una conferenza svoltasi quattro anni fa in Sila. Il Museo avrebbe dovuto aprire al pubblico nei primi mesi del 2010. Ad oggi non sembra sia stato inaugurato alcun Museo, infatti, il Comune di Spezzano della Sila al quale abbiamo telefonato per avere informazioni in merito, è stato piuttosto vago e ci ha dirottato verso l’ex APT di Camigliatello. Ma giunti qui, non abbiamo trovato niente.
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