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SONO stati resi noti i vincitori dell’edizione 2013 del Premio Sila ‘49. Sono Alessandro Perissinotto con “Le colpe dei padri” (Piemme) per la sezione Premio Letteratura, Domenico Losurdo con “La lotta di classe. Una storia politica e filosofica” (Laterza) quale Premio Economia e Società, e Lucy Riall con “La rivolta. Bronte 1860” (Laterza) per il Premio Speciale Saggio in traduzione sul Mezzogiorno. La cerimonia di premiazione dei vincitori avrà luogo sabato 7 dicembre al Ridotto del Rendano di Cosenza. Certo ce n’è di carne al fuoco, nel romanzo di Alessandro Perissinotto, “Le colpe dei padri” (Piemme, pp. 320, euro 17,50), che si è aggiudicato il Premio Sila ‘49. Crollo industriale, terrorismo, rapporti tra generazioni. Ambientato a Torino ai giorni nostri, torna indietro di quarant’anni, al miracolo di integrazione che lì condusse famiglie da tutta Italia, anche dalla Calabria. La storia del manager Guido Marchisio è anche, in parte, un noir con mistero da svelare. Ne abbiamo parlato con l’autore. 

«Lo spunto di fondo del romanzo è costituito dal tradimento della grande industria. C’è i ricordi dell’Italia dagli anni ’70 a oggi, dalla Fiat alle lotte sindacali, fino al terrorismo e alla crisi economica». 
Complimenti per la vittoria al “Sila”. Che idea hai di questo premio letterario? 
«Di un forte legame col territorio, non nella scelta di romanzi regionali: ho interpretato una voglia di far partecipare un intero territorio alle scelte letterarie, lo sento un premio di rianimazione culturale, di fermento». 
“Le colpe dei padri” è un romanzo con molti poli tematici, e uno dei protagonisti è Torino. 
«Sì, Torino è protagonista come città-laboratorio: accoglie l’immigrazione degli operai che si trasferiscono lì in fabbrica, sperimenta nuove forme di aggregazione e declino, inaugura la stagione delle lotte violente». 
Torino sperimentò la coabitazione coatta di gente che mai si sarebbe incontrata non fosse stato per la Fiat. Molti contadini meridionali, abituati a secoli di campagna, si trovano in grandi condomini. 
«Ho vissuto l’atmosfera di quegli anni, l’integrazione. Torino raddoppiò la popolazione, si trovò a comunicare con persone che neanche condividevano una lingua nazionale: la gente della campagna parla il dialetto. Non ne farei una questione di Nord-Sud, quanto una dinamica campagna-città». 
La rapacità delle aziende, il cinismo e la fine dell’umanità sono un altro polo tematico del romanzo. 
«È sempre più accentuato un “anonimato della proprietà”. Le battaglie operaie erano combattute contro un padrone riconoscibile. Oggi no. È padrona la finanza. Il destino delle persone non è deciso da qualcuno. Poi i manager vogliono guadagnare nel breve periodo, non esiste più investimento di lungo termine». 
Non sarebbe possibile una migrazione come quella torinese di 50 anni fa.
«Un agricoltore piantando un albero ha la prospettiva di raccoglierne i frutti, o la legna, entro decine di anni. Sono quelle persone che vennero chiamate nelle città industriali per l’investimento di una vita, di lungo periodo. Oggi le regole della finanza hanno modificato la programmazione sociale, creando instabilità». 
In cosa consistono, infine, le “colpe dei padri”? 
«Ho scelto le parole al plurale — “colpe” e “padri” — perché sono molte e diverse. C’è la colpa di tutti, singolarmente, che consiste nel desiderio dei figli di guadagnarsi il compiacimento dei loro padri. E ci sono le colpe collettive, generazionali. Non so se c’è modo di rendere più leggera la posizione dei padri. Se esistesse, io non saprei indicarlo».
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