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COSENZA – «Non vogliono pagare: “Dovete essere pochi, dovete essere pochi”, e poi vogliono i lavori importanti”». E’ una frase di un’incredibile attualità, riferita al mondo degli impresari teatrali, quella che Eduardo De Filippo mette in bocca a Gennaro De Sia, il protagonista di “Uomo e galantuomo”, la commedia andata in scena sabato sera al Teatro Auditorium dell’Unical. Il 2014 va a concludersi e finisce anche l’omaggio che l’Università della Calabria ha voluto offrire ad Eduardo De Filippo per il trentennale della sua morte. “Una delle prime università a farlo” come ha ricordato la voce di Fabio Vincenzi prima dell’apertura del sipario. 

La commedia, che De Filippo scrisse nel 1922, è stata allestita con la regia di Alessandro D’Alatri, che ha guidato un cast su cui spiccano Gianfelice Imparato e Giovanni Esposito, l’uno nel ruolo che fu di Eduardo, quello di don Gennaro, il capocomico di una sgangherata compagnia teatrale, e l’altro in quello del suggeritore della compagnia, quello che lancia la battuta tormentone dello spettacolo, “’nzerra chella porta”, una delle scene più riuscite, divertenti e famose di tutta la drammaturgia eduardiana. 

Uno spettacolo che non ha certo tradito le attese. Anzi. Uno spettacolo di quelli che ormai si fa fatica a vedere in giro, con tanti attori e una scenografia importante. D’Alatri non si è discostato molto dalla visione originaria di De Filippo e questo avrà certamente soddisfatto i puristi. Il testo fa il suo, diverte, fa ridere, gli attori sono bravi a rispettarne tempi e intenzioni, tra questi vanno citati Valerio Santoro e Antonia Truppo, e un Giovanni Esposito che lascia in fretta i panni di Giulio Andreotti (vestiti nella fiction su Ambrosoli, “Qualunque cosa succeda”, su Rai Uno) e torna a tuffarsi in quelli del carattere, a lui tanto congeniali. E siccome nel teatro di oggi “dovete essere pochi, dovete essere pochi”, ci sono almeno tre attori che fanno il doppio ruolo, Attilio “assorbe” anche il ruolo di Vincenzo ma la recitazione non ne risente, anzi, il pubblico applaude e si diverte al ritmo di “nun se leva”, buatte, sugne che si squagliano dentro la giacca e “lallalarallì lallalarallà”. 

Imparato, poi, che va per i 60, ha anche la maturità giusta per riflettere le caratteristiche di don Gennaro, la fame, la disperazione, la rassegnazione, l’arte di arrangiarsi elevata a scienza e si trova proprio a suo agio con i pantaloni extra size tenuti su dalle bretelle e i piedi con la maxi fasciatura. Senza considerare che fa la cosa più toccante di tutto lo spettacolo, quando a sipario chiuso, tra secondo e terzo atto, esce rivolgendosi al pubblico augurandosi, per quei sognatori che sono i teatranti, un futuro che, rispetto alla realtà dei primi del Novecento, possa essere migliore. Frecciata ai tempi di oggi, di D’Alatri e i suoi, scoccata con garbo, gusto e quell’amarezza tipica del teatro eduardiano. Una chicca che ogni probabilità al grande De Filippo sarebbe piaciuta.

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