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Don Lorenzo Milani

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di GIANCARLO COSTABILE

LA scuola è diversa dall’aula di tribunale. Il suo compito non è riducibile alla trasmissione di una mera pedagogia dell’obbedienza, intesa come aderenza al sistema formale di norme e leggi che regolano il vivere comunitario. La cultura è ‘pedagogia della disobbedienza etica’ perché è analisi radicale delle relazioni di potere che s’instaurano nella dialettica sociale. Don Lorenzo Milani, nella sua Lettera ai giudici, ha delineato con rigore ermeneutico l’identità del sapere pedagogico che è arte del cambiamento nella direzione della giustizia sociale.

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Formarsi vuol dire saper scegliere, giudicare, agire, non aderire e obbedire. Nell’esperienza di Barbiana si racchiudono il nucleo argomentativo e la prassi educativa per la fondazione di una moderna teoria pedagogica dell’uguaglianza: «Non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali». La società della disuguaglianza è per Lorenzo Milani l’avversario più feroce da contrastare poiché si pone come tradimento ontologico della vocazione umana all’amore, alla pace e alla felicità. Le pedagogie borghesi hanno il loro criterio di legittimazione sociale nell’educazione alla legalità, concepita nella sua dimensione di conformazione al potere dominante.

Ma la pedagogia non è il linguaggio della società dei forti, né l’inchino alle verità del sistema. La semantica educativa intona la voce degli ultimi, degli oppressi, dei senza storia: di tutti quei volti sfregiati da chi ha scelto di far ‘valere di meno’ la vita della maggioranza degli umani che popolano il pianeta. Se la legalità è disgiunta dalla giustizia sociale, se espunge dal suo ambito operativo ogni idealità di riscatto civile delle masse popolari, la relazione pedagogica si riduce a tecnica di dominio e manipolazione, e non di emancipazione cognitiva e liberazione politica. I limiti della cosiddetta antimafia borghese risiedono in questa scissione permanente tra legalità e giustizia sociale. Il rispetto formale della legge, in una società socialmente divisa e lacerata, caratterizzata da ingiustizie di vario genere, rischia di essere sterile, oltre che manifestamente ipocrita. E farisaica è la fabbrica di denaro pubblico in cui si sta trasformando un settore non trascurabile del movimento antimafia: spettacoli teatrali ben pagati, costosi festival di ‘libri legalitari’, cinematografia stereotipata stanno alimentando un’industria dell’immagine, il cui unico compito è la sistematica elusione delle questioni sociali più rilevanti.

Se guardiamo, ad esempio, agli ultimi dati sull’economia meridionale, la Calabria ha perso tra il 2008 e il 2015 quasi 70mila posti di lavoro. E’ la regione italiana più colpita. Nelle statistiche curate dall’Osservatorio dei Consulenti del lavoro, nello stesso arco temporale preso in esame, il Mezzogiorno ha subito una riduzione di oltre 500mila maestranze, mentre sono 400mila i meridionali che hanno trasferito al Nord del Paese, e all’estero, la loro residenza in questi anni di crisi economica. Siamo dinanzi ad una spaventosa desertificazione civile e sociale. Il concetto di antimafia tradizionale imperniato sul paradigma della legalità di Stato deve essere liquidato. Ha ragione Isaia Sales nel suo ultimo lavoro di ricerca, Le mafie nell’economia globale: «La criminalità di tipo mafioso è la prima criminalità nella storia delle società moderne che supera la barriera morale, sociale, giuridica che era stata costruita per separare i ricavi predatori da quelli produttivi, supera cioè permanentemente la barriera tra economia e criminalità, riproponendo in maniera del tutto nuova il rapporto nel mercato tra ciò che è legale e ciò che non lo è». Se non ragioniamo esplicitamente nei termini di un’alternativa di società al modello capitalistico di produzione e distribuzione della ricchezza, saremo costretti a convivere con ‘democrazie mafiose’ secondo lo schema di molti paesi dell’America Latina. E’ arrivato il momento di una rottura epistemica (radicale) nei confronti di questo modo di stare al mondo: la società della disuguaglianza, che è la grammatica del potere delle mafie, deve essere messa in discussione. E per far questo, non abbiamo bisogno di una pedagogia dell’obbedienza, né di pifferai di regime.

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