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di FRANCESCO FORGIONE

OGNI giorno la cronaca è ricca di notizie relative a sequestri milionari di beni della criminalità organizzata. Da Nord a Sud è la frontiera del contrasto alle mafie, l’aggressione al loro vero potere: la capacità di accumulare ricchezza, di reinvestirla e moltiplicarla e di utilizzare gli strumenti dell’economia e del mercato per ripulire i loro soldi. Milioni di euro investiti in immobili, azioni societarie, attività commerciali, imprese di servizi. Qual è la differenza tra economia legale ed economia illegale, dove si colloca la linea di confine, qual è il discrimine nelle forme di sfruttamento del lavoro e nel processo di accumulazione della ricchezza?

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Fino al momento in cui le operazioni di polizia e magistratura non sequestrano un importante ristorante nel cuore di Roma o un bar a due passi dal Duomo di Milano, quel luogo è “pulito”, vi si incontra la bella borghesia, il bel mondo della politica e delle imprese ma anche avvocati e, non di rado, magistrati. E’ l’atto giudiziario che trasforma un pezzo di economia vissuto e percepito come legale in uno strumento di attività criminale. Questo scarto tra percezione e realtà oggi rappresenta il nodo centrale se si vuole comprendere come rendere efficace la lotta alla mafia e da dove partire per assestare colpi che ne incrinino la forza e la capacità di fascinazione esercitata su ampi settori della società.

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Ma questo ragionamento ci rimanda alla questione del modello economico sociale, questa fase del capitalismo e del mercato intrisa, nella sua normalità, di forme, pratiche e capitali illegali. E’ la questione posta, in altre forma, dal Procuratore nazionale Franco Roberti e della Relazione della Dna sulla ‘ndrangheta. Ne avevamo scritto dieci anni fa nella prima relazione della Commissione Parlamentare antimafia, quando, a proposito delle regioni del Nord, non parlammo più di infiltrazione della ‘ndrangheta ma di colonizzazione. Cioè di un doppio processo, di riproduzione del modello e delle strutture criminali da un lato e di egemonia culturale e sociale dall’altro.

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Questo secondo aspetto non poteva che affermarsi attraverso un rapporto con il mondo economico e delle imprese e la scelta di trasferire i propri capitali – gran parte dei quali accumulati con il traffico della droga – fuori dalla Calabria. Questa dimensione economico-finanziaria dell’attività della ‘ndrangheta rimanda al tema delle relazioni esterne e a quello che il sociologo Rocco Sciarrone definisce il “capitale sociale” delle mafie. Imprenditori, professionisti, notai, commercialisti; quante figure “pulite” vanno messe in rete per ripulire milioni di euro al giorno, investirli in attività economiche e commerciali, amministrarne la redditività e, parallelamente, fornirne parte all’associazione per rigenerare l’attività più direttamente “criminale”?

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Certo, guardando le immagini dei soggetti del “crimine” della Lombardia riuniti nel circolo dell’Arci di Paderno Dugnano si fa fatica a credere che dietro sofisticate operazioni finanziarie ci siano un gruppo di semi analfabeti, più consoni alla vita tra le grotte dell’Aspromonte che alle relazioni sociali nella capitale finanziaria del Paese. Ma è proprio su questo che, invece, va portata a fondo l’analisi, senza cadere nel tranello della dicotomia tra vecchia e nuova mafia, tra i vecchi uomini d’onore e gli spregiudicati ‘ndranghetisti, manager del crimine che niente hanno a che fare con i valori e le tradizioni dell’onorata società. Del resto, anche di Riina e Provenzano i teorici antimafiosi dei “terzi” e “quarti” livelli dicevano che fossero due poveri criminali analfabeti, persino “strumenti di distrazione di massa” rispetto alla vera mafia che non poteva essere guidata da due pastori dediti alla cicoria e alla scrittura sgrammaticata di “pizzini”.

Invece il problema vero non sono i boss – che in gran parte hanno anche queste caratteristiche e vanno perseguiti senza tregua – ma l’ipocrisia della convivenza e della convenienza sociale di settori ampi del mondo economico e della politica. E ciò in Calabria è più drammatico. Il Presidente del Senato Piero Grasso, intervenendo al Festival Trame di Lamezia, ha affermato che in Calabria la società civile è rimasta sopita perché a differenza della Sicilia non ha subito lo choc delle stragi e degli omicidi eccellenti. E’ un’affermazione sulla quale c’è da discutere. Io penso diversamente. In Calabria il sistema delle convenienze nel rapporto tra società civile e ‘ndrangheta è così diffuso e trasversale che ha assorbito ogni spinta alla denuncia e alla rottura. Il silenzio degli industriali calabresi che per decenni hanno vissuto solo di finanziamenti pubblici, nazionali ed europei, è da sempre assordante. Ma lo è perchè quei soldi sono stati filtrati attraverso un rapporto distorto con la politica e la pubblica amministrazione e attraverso lo scambio con il vero convitato di pietra, la ‘ndrangheta.

Se a questo si aggiunge il ruolo che in nessun’altra regione un potere parallelo come la massoneria ha nelle decisioni che riguardano la vita pubblica – dalla sanità alle università fino alla magistratura – il cerchio si chiude. Non so se siano ancora adeguate le vecchie categorie di colletti bianchi, zona grigia o quella – a me più cara – di borghesia mafiosa. Forse sono tutte da aggiornare mettendo a fuoco meglio, a partire dal nodo dell’economia, le forme di convivenza con la mafia delle classi dirigenti intese nel senso più ampio e le strutture di produzione del consenso.

Ma è anche utile non sottovalutare quel “mondo di mezzo” di cui parla al suo compare il boss di mafia capitale Massimo Carminati: “…ci stanno i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo… vuol dire che ci sta un mondo in mezzo in cui tutti si incontrano… e tu dici c…. come è possibile che un domani io posso stare a cena con politici… E’ il mondo di mezzo no?… è quello dove tutto si incontra… persone di un certo tipo, di qualunque ceto… tu stai lì ma non per una questione di ceto, ma di merito, no?..”. Basta prendere questa teoria, sociologica più che criminale, ed applicarla all’inchiesta della Procura di Catanzaro sulla Misericordia Isola Capo Rizzuto identificando nel “mondo di mezzo” i protagonisti della storia che ruota attorno alla Misericordia. Al di la degli aspetti giudiziari dei quali daranno ragione le sentenze, e della similitudine legata all’affare dei migranti, i tre mondi ci sono tutti: dagli uomini dei boss, agli imprenditori, al ruolo del parroco e della chiesa, ai prefetti che non hanno visto nulla, fino alla filiera politica che dal consiglio comunale arriva ai parlamentari e ai sottosegretari nazionali. Si potrebbero fare centinaia di altri esempi piccoli e grandi. Rimane però la questione centrale del destino di questa terra: le classi dirigenti trovano persino conveniente il suo degrado sociale e la sua crisi morale, fino alla normale convivenza con le ragioni e i protagonisti che li provocano e con i quali scambiano servigi e consenso, piuttosto che operare una rottura radicale da far vivere nella società per trarre da essa la forza di rifondare se stesse. Per questo la ‘ndrangheta, nonostante non dorma più sonni tranquilli, sino ad oggi ha vinto.

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