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L'incontro su Pippo Fava con Lirio Abbate

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COSENZA – Veniva ucciso 35 anni fa Pippo Fava. Giornalista, intellettuale e sceneggiatore siciliano, fu freddato la sera del 5 gennaio 1984 a Catania da cinque proiettili calibro 7,65 sparati alla nuca dai sicari di cosa nostra. Pochi giorni prima, il 28 dicembre, in un’intervista a Enzo Biagi trasmessa sulla prima rete Rai spiegava che sulla mafia c’era «un’enorme confusione», perché «i mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione. Non si può definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e ti impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale, questa è roba da piccola criminalità, che credo abiti in tutte le città italiane, in tutte le città europee. Il fenomeno della mafia è molto più tragico ed importante…».

Parlava, scriveva e raccontava di mafia Pippo Fava in anni in cui in Sicilia e a Catania si preferiva tacere e ancor più negare.

«A Catania la mafia non esiste» avrebbe detto il sindaco Angelo Munzone dopo l’omicidio. E l’assassinio di Fava per molti anni non fu un delitto di mafia, per una parte degli inquirenti e anche della stessa stampa siciliana che preferì invece inventare una pista passionale o economica. Ci vorrà il 1998 per arrivare alla condanna – diventata definitiva nel 2003 – dei boss Nitto Santapaola e Aldo Ercolano.

A Pippo Fava, giornalista dalla schiena dritta e intellettuale scomodo, è stato dedicato ieri il primo dei quattro reading suiGiornalisti nella storia organizzati dalla Fondazione Mario Dodaro, dal Quotidiano del Sud, dall’Istituto Studi Storici con la collaborazione del Conservatorio di Cosenza “Giacomantonio”, e ospitati nella sala conferenze “Sandro Tito” della redazione centrale a Castrolibero.

Una storia, quella di Fava, che parla di giornalisti e di non-giornalisti per usare le parole del vicedirettore dell’Espresso Lirio Abbate, che ha tracciato il profilo del cronista siciliano – suo conterraneo – aprendo ieri sera l’incontro.

«All’indomani del delitto, il quotidiano della città si affrettò a negare, negli articoli di fondo pubblicati in prima pagina, la matrice mafiosa – ricorda Abbate – Diffusero, attraverso gli scritti di alcuni giornalisti, la falsa notizia secondo cui Fava sarebbe stato un pedofilo o un seduttore, raccontando l’omicidio come la vendetta di un padre esasperato o di un marito arrabbiato. Era La Sicilia di Ciancio, erano gli articoli di Zermo. Gli atti giudiziari parlano. C’è voluta la caparbietà della famiglia e dei colleghi della sua rivista per difenderne la memoria, fino alla confessione di uno dei killer. Ancora oggi quel processo è la macchia nera di un giornalismo che spero non torni più. Non esiste il giornalista antimafia, o il giornalista sotto scorta. Esiste il giornalista e il non-giornalista. Il giornalista – spiega Abbate – è chi racconta i fatti, trova notizie, mette in connessione storie. Chi si gira dall’altra parte, chi depista per favorire amici, parenti o conoscenti è un non-giornalista. Spero non si ripeta più, spero che queste divisioni non ci siano più».

Non c’è bisogno di dire da che parte stava Fava. Si legga, ad esempio, cosa scriveva l’11 ottobre del 1981 rispondendo da direttore – in uno scritto intitolato “Lo spirito di un giornale” – a una lettera inviata al Giornale del Sud: «Io ho un concetto etico del giornalismo. Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza, la criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente all’erta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo». Fava aveva assunto la direzione di quel giornale un anno e mezzo prima.

«Il nuovo quotidiano ottiene un notevole successo – ricorda Abbate – La gente lo acquista perché ci sono dentro notizie. Fava comincia a raccontare le opacità della città, parla di mafia, ricostruisce interessi e relazioni di Benedetto Santapaola. Dopo la pubblicazione dell’ennesima notizia non gradita a Santapaola, si interviene per richiamarlo. Lui non si lascia intimidire e va avanti, fino a quando non sarà costretto a lasciare la direzione del giornale». Lo seguono alcuni colleghi del Giornale del Sud con i quali fonderà la rivista I Siciliani. Su quelle pagine ritornano le inchieste che fanno tremare Catania e i “quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa”, un forte gruppo imprenditoriale della città.

«Segue le tracce di alcuni sospetti finanziamenti regionali, indaga nella gestione di alcuni istituti bancari, si occupa del delitto Dalla Chiesa, racconta la guerra di mafia tra Palermo e Catania e il ruolo di Santapaola, scuote la magistratura della città, pubblica gli elenchi della massoneria – continua Abbate – Fava racconta e fa ragionare i suoi lettori. Se dai a Riina del mafioso o del criminale a Santapaola non li offendi. Ma se parli dei loro affari o dei rapporti che intrattengono con imprenditori e politici, allora lì inizi a danneggiarli. Arrivano nuove intimidazioni e tentativi di comprare il silenzio di Fava, proponendogli collaborazioni strapagate in televisioni regionali o forti somme di denaro». Fava rifiuta e tira dritto. Non poteva tradire lo spirito del suo giornale, né poteva tradire se stesso.

«Un giornalista incapace, per vigliaccheria o calcolo, della verità – scriveva ancora in quel testo dell’11 ottobre ‘81 – si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che avrebbe potuto evitare, e le sofferenze, le sopraffazioni, le corruzioni, le violenze che non è stato capace di combattere. Il suo stesso fallimento!».

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