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Giovanni Allevi (foto di Cosimo Buccolieri)

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C’È UN proverbio giapponese che recita “L’uomo in silenzio è più bello da ascoltare”. Molti potrebbero scambiarlo per un invito a tacere, a non esprimersi e soprattutto a non dare importanza alle parole e ai suoni degli altri. Non è affatto così. La cultura orientale ha ben compreso quanto il silenzio sia una fonte di enorme forza, proprio come sottolinea il filosofo Lao Tzu, figura entrata nel pantheon nipponico e vissuto circa duemila anni fa.

Questi pensieri ci vengono in mente mentre impostiamo l’intervista con il maestro Giovanni Allevi, compositore di fama internazionale, conosciuto in tutto il mondo, a cui addirittura la Nasa ha dedicato il nome di un asteroide.

Allevi è uno di quei musicisti che ha superato le barriere dei generi musicali dello showbiz, cosa rara ma non impossibile, se si riesce a toccare le corde giuste dell’animo delle persone. Se si riesce a far vibrare i loro silenzi. Soprattutto in un momento così importante in cui siamo costretti ad imparare a convivere con la pandemia, la musica, e la narrazione in genere, diventano essenziali per noi come uomini. Proprio per questo la prima domanda è sul primo concerto live dopo tanto tempo.

Credo che la standing ovation che la platea di Lucerna le ha tributato dopo il concerto sia stata una “onorificenza”, al pari delle tante di cui è insignito, visto lo stop che c’è stato nelle attività live a causa del Covid. Quanto è stata forte l’emozione?

«Un’emozione fortissima! Quello di Lucerna è stato un concerto molto difficile da affrontare emotivamente. Erano mesi che non suonavo dal vivo ed in più avevo la schiena immobilizzata da un dolore lancinante di origine somatica. Ho dato davvero il massimo, ho trattenuto il respiro, ho pennellato quelle note. Quando è arrivata la standing ovation non credevo ai miei occhi!»

Nel videoclip di Kiss Me Again è evidente un profondo rapporto fra la sua musica ed il corpo. Molti dicono che la “musica viene dal cuore”. A me sembra che la sua musica parta da lei, percorra il legno del pianoforte, gli 88 tasti ed arrivi anche ai muscoli di chi l’ascolta per invaderli completamente. Cosa ne pensa?

«Quando compongo musica non siedo mai alla tastiera. Giro nervosamente per la stanza attorno ad un tavolo e seguo i passaggi musicali con movimenti del corpo, delle braccia, delle dita. Come se dirigessi quelle note nell’aria. La musica viene dall’alto, ma deve infondere energia ed emozione al corpo».

Che rapporto ha con il pianoforte? Lo sente come una parte di lei o qualcosa con cui si confronta?

«Siamo una cosa sola. È ormai leggendaria la mia assoluta intransigenza sulla preparazione del pianoforte da concerto da parte degli accordatori. Deve avere i timbri che dico io, non deve esserci una nota che suona più forte delle altre, deve poter esprimere un pianissimo ai limiti del silenzio. Quando è così, smetto di suonare e scendo ad incontrare i miei draghi interiori».

Come è stato lavorare al progetto della serie Allevi in the jungle?

«È stato come immergersi in un laboratorio di psicologia sociale, dove la struttura rigorosa ha lasciato spazio all’improvvisazione. Ho dialogato con ragazzi filosofi, visionari, innovatori che vivono la strada e rifiutano di omologarsi alla società conformista. Mi hanno reso partecipe della loro scintilla interiore».

Che rapporto ha con i luoghi in cui ha vissuto, penso alla sua regione d’origine le Marche, ma anche ai luoghi in cui è stato e ha suonato, dalla Città Proibita a Pechino fino alla Carnegie Hall di New York? In che modo la influenzano?

«C’è sempre il rischio che nella assoluta concentrazione dell’esibizione io tralasci di vivere il luogo. Una volta, in taxi a Tokyo ho detto al mio agente: “Ma che bello è quel palazzo?” E lui: “È il teatro dove ieri hai fatto il concerto!”. Diverso è il discorso sulla terra di origine, soprattutto se si proviene da una realtà di provincia. Lì vieni in contatto con una bellezza troppo grande che difficilmente puoi ritrovare altrove».

Lei si è laureato in Filosofia con una tesi sul vuoto nella Fisica Contemporanea. La cosa mi ha fatto pensare ad un verso della poetessa Chandra Livia Candiani da Il Silenzio è Cosa Viva: “Non voglio imparare a tacere, voglio assaporare il silenzio da cui ogni parola vera nasce.” Quanto conta l’equilibro con il silenzio nella musica di Giovanni Allevi?

«Quando ho scritto la tesi, ormai tanti anni fa, ero entusiasta all’idea di dimostrare che il vuoto non esiste. Per la Meccanica Quantistica è infatti il centro ribollente di una incessante attività subatomica. Oggi, in un’epoca di eccesso di stimoli e di informazioni, sento la necessità opposta di tornare al vuoto in quanto nulla. Per le anime tormentate può essere una salvezza».

Due le date in Calabria del compositore, la prima mercoledì 11 agosto, al Teatro dei Ruderi di Cirella, con inizio alle 21.30, all’interno della rassegna, “Exit. Deviazioni in arte e musica”; la seconda  giovedì 12 a Reggio Calabria, ore 21,45, nella  cornice dell’Arena dello Stretto, un luogo unico e impareggiabile  dove ha da poco realizzato il video del brano “Kiss me again”.

In “Mente e Materia” Erwin Schrödinger, scienziato geniale e grande teorico della fisica quantistica nell’incipit scrive: «Il mondo è una sintesi delle nostre sensazioni, delle nostre percezioni e dei nostri ricordi. È comodo pensare che esista obiettivamente, di per sé. Ma la sua semplice esistenza non basterebbe, comunque, a spiegare il fatto che esso ci appare».

Ecco perché il silenzio ed il vuoto. Ecco perché ci sono ancora necessari. Per ascoltare la musica. Per ascoltarci.

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