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COSENZA – Una serata (quasi) tutta la femminile quella che il Rende Teatro Festival propone per stasera al cine teatro Garden di Rende. In cartellone c’è uno spettacolo già molto femminile nel titolo, “Le figlie di Eva”, e che ha per protagoniste Maria Grazia Cucinotta, Vittoria Belvedere, Michela Andreozzi e, unico uomo del cast, Marco Zingaro. L’inizio è previsto per le ore 21. Per Vittoria Belvedere una delle poche occasioni per lavorare nella “sua” Calabria. L’attrice, infatti, è nata a Vibo Valentia da genitori calabresi che però quando aveva appena nove mesi si sono trasferiti a Roma. «E a me la Calabria ricorda soprattutto le vacanze di quando ero piccola – racconta la Belvedere – ogni anno, ogni estate l’ho trascorsa a San Costantino di Briatico, vicino Tropea, dai nonni, almeno fino a quando ho avuto dieci, dodici anni».

E cosa ricorda di quel periodo?

«I miei nonni vivevano in campagna, erano contadini. Ricordo la vita che si faceva lì, tra gli animali e la natura. Il rapporto con le mie cugine, poi. Erano gli anni spensierati, di quando si era piccoli. Però ad un certo punto le esigenze sono cambiate, si sono prese strade diverse e sono scesa giù molto più raramente. I miei figli, per dirle, ci saranno stati al massimo un paio di volte».

Nemmeno per lavoro torna in Calabria?

«Ricordo uno spettacolo a Lamezia che poi deve aver fatto tappa anche a Reggio Calabria, ma è passato un bel po’ di tempo. L’accoglienza, neppure a dirlo, fu strepitosa. Vennero i miei nonni, i miei zii, fu un’ovazione insomma. Ma io la Calabria me la porto dentro, siamo belle persone, aperte, regaliamo il nostro cuore per il benessere dell’ospite. E, pensi un po’, in questo spettacolo recito in calabrese per la prima volta».

Davvero?

«Il mio è un personaggio particolare. Un’insegnante precaria, calabrese, che però ha la sindrome di Tourette. Significa che in determinati stati d’animo non riesce a gestire le emozioni e le compaiono dei tic e deve dire delle parolacce, nel mio caso in calabrese».

Detta così sembra molto divertente. Anche interpretare un personaggio così deve essere divertente.

«Io mi diverto un mondo. Ma è da qualche anno che il teatro in generale mi sta dando delle grandi soddisfazioni».

Non le manca la tv o il cinema?

«Diciamo che ho trovato una mia dimensione. E mi piace tantissimo questo lavoro che giorno per giorno l’attore deve fare sul suo personaggio, che cresce continuamente, che sera dopo sera non è mai uguale. In tv o al cinema non c’è questo lavoro. E poi, da donna, secondo me il teatro ti offre più possibilità per le commedie».

Cosa le hanno lasciato l’esperienza di Ballando con le stelle e di Tale e Quale?

«A Ballando mi sono divertita di più. Lì partivamo tutti allo stesso livello, gli unici che sapevano ballare erano i maestri e questo valeva per tutti. A Tale e quale invece devi avere già all’inizio delle capacità canore, perchè ti scontri con cantanti veri e propri. Certo, ci sono attori che fanno delle belle figure, io stessa ho fatto dei personaggi che mai nella vita avrei pensato di poter fare, ma alla fine mi pare che abbiamo vinto quasi sempre i cantanti».

Ha dovuto pescare molto nel suo vissuto per creare questo personaggio?

«Sì e no. Quando andavo a scuola io avevo una professoressa di musica un po’ impacciata, di una certa età e negli atteggiamenti l’ho un po’ imitata. Ma finisce qua: io a scuola avevo insegnanti severissimi, la mia Antonia è dolce, fa tenerezza, ed è costretta a convivere con un disagio e tra tanti pregiudizi».

Lavorare con l’autore al fianco, in questo caso Michela Andreozzi, è una responsabilità in più?

«Direi che è un grande aiuto. In teatro ci si affida a un capocomico, in genere, e chi meglio di lei, da autore, può gestire gli umori e gli andamenti dello spettacolo. E’ un aspetto positivo, ti corregge gli errori, ti segnala le battute dove possono scattare gli applausi. Poi, è chiaro che, in altri momenti, in maniera simpatica, sembra di vivere con un generale».

Cosa lascia questo spettacolo, a quale urgenza risponde?

«L’unione fa la forza, soprattutto tra donne. Spesso sono gli uomini a fare comunella, a fare i compagnoni. Le donne di meno, forse perchè sono più responsabili, e in più devono convivere con quel pregiudizio che le vuole far stare sempre all’ombra di un uomo. Invece siamo quasi sempre noi a far credere l’uomo nelle sue capacità. A spronarlo. A insistere. Allora non dobbiamo arrenderci e come donne e credere nei nostro obiettivi fino in fondo».

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