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De Rose nel 2016 in Texas per le World Series del campionato Red Bull di tuffi dalle grandi altezze (foto Romina Amato)

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L’atleta cosentino è l’unico italiano in gara ai mondiali di «cliff diving» ovvero dalle grandi altezze: era la “spalla” del campione olimpionico Giovanni Tocci, cresciuto anche lui nella piscina di Campagnano

COSENZA – La vita può essere un tuffo nel vuoto se a 17 anni perdi il papà. «Venivo qua con lui la domenica mattina, dicevamo a mamma che stavamo andando in chiesa e invece…». Alessandro De Rose, che di anni ne farà 25 il mese prossimo, sorride con gli occhi lucidi nella gelateria dei ricordi. Al di là del vetro si vedono il tetto della piscina comunale e le piattaforme di cemento alla cui ombra è cresciuto, tuffandosi da trampolini sempre più alti. Uno. Tre. Dieci metri.

LA COPPIA DEI MIRACOLI
Alessandro – ospite dell’ultima puntata di “Che fuori tempo che fa” – adesso somiglia a Robert Pattinson, ma fino a qualche anno fa, anziché un futuro attore era il bimbo (e poi ragazzino) più corpulento della coppia dei miracoli con Giovanni Tocci: lui largo e ben più alto del compagno mingherlino, ma ugualmente tagliente nell’entrata in acqua – che nei tuffi è quello che conta. Alessandro che quasi spezza il trampolino, Giovanni che lo sfiora con le punte come un ballerino. L’anatroccolo e la farfalla. Poi con il passare degli anni il fisico si è levigato e le strade di Tocci e De Rose si sono divise, «ma naturalmente noi siamo rimasti amici come prima, anzi di più».

È la generazione d’oro allenata da mister Gaetano “Nino” Aceti, la prima nidiata di una scuola creata dal nulla e adesso riconosciuta e stimata in tutta Italia e oltre.

L’atleta cosentino è l’unico italiano in gara ai mondiali di «cliff diving» ovvero tuffi dalle grandi altezze: era la “spalla” del campione olimpionico Giovanni Tocci, cresciuto anche lui nella piscina di Campagnano

Oggi, assieme a Tocci e De Rose iniziano a farsi strada, e anzi hanno già un nome, il 17enne Francesco Porco (in coppia proprio con Tocci anche alle recenti World Series a Kazan in Russia, dove l’Italia ha espresso in totale 5 atleti tra uomini e donne) e poi Antonio Volpe e Francesco Caputo o la senior Laura Bilotta. Cosenza in poco più di un decennio è diventata tappa dei master della Federazione nazionale e gli aficionados della piscina all’aperto ricordano ancora quei pomeriggi assolati di una quindicina d’anni fa in cui i giovanissimi atleti cosentini – bersaglio delle mitologiche «cazziate» di Nino – ammiravano la leggiadria di una figlia d’arte, talentuosa promessa, statuaria già da teen-ager: Tania Cagnotto, la futura campionessa mondiale che la vasca di Campagnano la conosce benissimo.

 Di passaggio nei giorni scorsi dalla sua città per la promessa della sorella, Alessandro De Rose aveva già la testa ad Abu Dhabi, dove a fine aprile si è disputata la Coppa del mondo di tuffi e lui si è piazzato decimo. 

SULLA CIMA DI UN GALEONE
De Rose vive da tre anni a Trieste, dove ha conosciuto la fidanzata che era la sua allenatrice. Ha lasciato gli studi ed è diventato anche lui allenatore. Ma prima, tra la Calabria e il Friuli, c’è stata una tappa decisiva, quella in cui forse tutto è cambiato per prendere una piega inaspettata: Zoomarine, il parco divertimenti di Torvaianica (Pomezia) dove ha scoperto i tuffi dalle grandi altezze. «Ero in cima all’albero di un galeone – racconta De Rose –, in balìa del vento, sospeso su un traliccio altissimo. Avevo 17 anni. Allora ho iniziato a lanciarmi giù, finalmente senza il timore del giudizio di altri come accadeva prima. Non era importante l’entrata in acqua, ero io a sfidare me stesso scegliendo quelle distanze». 

In “Billy Elliot” il sogno di un bimbo – diventare ballerino a Londra dopo un’infanzia di stenti nella periferia post-thatcheriana – è avversato dal padre: la scena finale è un frozen frame che mette i brividi. Nel caso di Alessandro si può dire che il padre, Giovanni, sia stato il suo primo tifoso.  

Nelle foto che circolano sui social (seguitissimo il suo profilo Instagram, «alediving92») si notano due pistole che nella parte bassa della schiena finiscono nel costume e incorniciano la scritta tatuata «vendetta»: sul corpo i caratteri gotici e i disegni – 14 in tutto – sostituiscono le cicatrici che potresti aspettarti se pensi a tuffi da fiordi e grattacieli, persino in notturna. «A Dubai mi sono lanciato dal terzo piano di un grattacielo ma sembrava basso, visto che attorno tutto è altissimo… Ho ricordi meravigliosi dei tuffi in Costiera amalfitana, dal Fiordo di Furore, e soprattutto a Polignano, in Puglia. Atmosfera fantastica, davvero indimenticabile».

Da Roma a Trieste al mondo. «Cosenza? È sempre più bella, ma il mio futuro è fuori dall’Italia»

Si direbbe che per arrivare a questi risultati la concentrazione e la determinazione sono nulla senza un’alimentazione adeguata. Che tipo di dieta segue?

«La mia dieta è fatta di carboidrati solo a rilascio lento (patate e riso), molte proteine, al mattino uova (anche due), pane integrale. E pomodori, moltissimi pomodori».

Un regime alimentare impossibile da seguire in Calabria…

«Vero… e infatti quando torno qui non posso fare a meno di salsicce e dolci, penso alle zeppole ad esempio. E i cornetti piccoli, nei bar cosentini, sono quelli che a Trieste ti vendono per grandi!».

Come ha visto cambiare la sua città dagli anni in cui è partito per trasferirsi prima a Roma e poi a Trieste? 

«Cosenza è cambiata in meglio, persino questo bar era diverso… Ma il mio obiettivo è andare fuori, fuori dall’Italia dico».

Perché?

«All’estero c’è più meritocrazia che in Italia. Crescendo ho capito che i ritardi e le anomalie della Calabria sono comuni a tutta l’Italia: anzi lo stereotipo del calabrese fannullone è riduttivo e offensivo, ed esempi come quello di Giovanni Tocci, fatto di dedizione, studio e sacrifici, lo dimostrano».

Intanto, lei il mondo lo sta girando: prima come tuffatore RedBull, ora per la Coppa del mondo Fina.

«Sì, e ad Abu Dhabi c’era una delle tappe più importanti in assoluto: non si trattava delle World Series ma della gara “seria”, con 25 uomini e 13 donne, 13 nazioni rappresentate e io unico italiano in gara. I migliori 18 si sfideranno al Mondiale di Budapest».

 «Papà era un dipendente comunale, io ero il suo orgoglio, la sua voglia di riscatto. La medaglia che esponeva in Municipio davanti ai colleghi»

 Nella sua categoria ha sfidanti in Italia?

«C’è Alex Parpaiola, di Bolzano, che sta iniziando ora e al quale auguro un futuro di successi. Io sono entrato nella scuderia RedBull: se arrivi qui sei il migliore».

C’è un futuro per i tuffi dalle grandi altezze tra le discipline olimpiche?

«Non saprei, per ora sicuramente no. Ci sono troppi pochi partecipanti, fino a tre anni fa non c’erano donne. Ora stanno aumentando, e molte oltre che tuffatrici sono anche ginnaste, acrobate. È uno sport in cui servono forza di volontà, potenza ed equilibrio. E poi bisognerebbe individuare l’altezza giusta da cui le donne si dovrebbero tuffare: 20 metri come succede adesso oppure 22? Il giudice della Fina Claudio De Miro, chairman del Comitato Grandi Altezze in federazione, ci sta lavorando. Purtroppo a febbraio è venuta a mancare un’altra figura importante per questa disciplina, Niki Stajkovic, direttore sportivo del circuito delle grandi altezze Red Bull Cliff Diving».

I 27 metri del torneo RedBull sono stati il vero trampolino di lancio?

«Assolutamente».

E quali sono gli allenatori a cui si sente più legato?

«Ho avuto la fortuna di avere sempre ottimi allenatori, il cui lavoro è stato importante visto che la struttura all’aperto di Cosenza non è ottima e quella coperta è senza palestra (oltre a non avere due trampolini vicini per gli allenamenti in sincro nella vasca indoor – ndr). Beh oltre ad Aceti, che ci ha insegnato a lavorare duro per rincorrere un sogno, con disciplina e sacrifici, citerei senza dubbio Lyubov Barsukova, un’allenatrice che è stata anche atleta: se questo sport lo hai praticato, allora lo conosci».

Qual è stata la gara che più le è rimasta nel cuore?

«Senza dubbio la tappa RedBull a Polignano: venivo da un infortunio al ginocchio a Copenaghen ma davanti a 75mila persone mi sono esaltato quando lo speaker ha ripetuto per tre volte il mio nome. Mi è venuta la pelle d’oca, e non per il vento… Secondo me, soltanto Grosso dopo il rigore ai mondiali del 2006 ha provato un’emozione così travolgente».

A proposito di emozioni, spesso nelle sue parole torna il ricordo di suo padre.

«Papà era un dipendente comunale, io ero il suo orgoglio, la sua voglia di riscatto: fu lui a spingermi per primo dalla piattaforma. Ero la medaglia che esponeva in Municipio davanti ai colleghi». 

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