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Uno scorcio di Altomonte

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Scendo la rampa della Torre Pallotta, la torre normanna accanto al castello. È alta circa 25 metri. Da lassù si gode una vista a 360° gradi. “O a 365” come mi ha appena detto un signore facendomi sorridere. «Lo so che si dice 360, ma 365 mi fa pensare a tutti i giorni dell’anno».

«E quelli bisestili?» aggiungo scherzando. Lui ci riflette su un attimo. «Giusto, è vero. Allora 366 gradi, così vale sempre». Svolto per Largo Renga, passo dalla piazza e mi affaccio al piccolo balcone in pietra. Uliveti e vigneti si estendono ovunque, insieme alle cime del Pollino e dell’Orsomarso e in lontananza, anche se non si vede, il Mar Ionio sta splendendo di blu.

Torno indietro, prendo Via Paladino e mi ritrovo su Largo Pancaro, davanti alla Chiesa di Santa Maria della Consolazione, con la sua facciata in stile gotico-angioino. Dentro si trova il sarcofago del Principe Filippo Sangineto, detto anche di Brahalla, che era l’antico nome di Altomonte in arabo. Faccio un giro, mi affaccio alla balconata e vedo i due laghi d’Esaro e Farneto. Qui si affaccia anche il Museo Civico. In mezzo alla piazza c’è la statua di Tommaso Campanella. Mentre le sto facendo una foto, vedo un uomo sbucare dalle scale davanti alla chiesa. Arriva da una piazzetta lì al lato, ha un bicchiere in mano. Mi sembra vino, un rosé.

«È il Brahalla» mi dice «è della Cantina Barbieri» e mi indica l’hotel-ristorante. «Lo fanno loro, con il magliocco». Mi dice che sono bravissimi, che Enzo è un principe della cucina e che come fanno loro il guanciale di maiale calabrese e gli anelli di cipolla rossa di Tropea fritti in pastella, non ce n’è nel mondo.

«Ci vada, ci vada, duve c’è gustu, ‘un c’è perdenza» mi dice convinto e dà un piccolo sorso. Mi è sempre piaciuto chi parla con entusiasmo dei prodotti della sua terra. Poi alza il bicchiere e lo guarda controluce.

«È un po’ arancione, proprio come noi ora con il Covid» dice. «Chissà se con la versione indiana del virus si potrà tornare gialli. Questa pandemia sembra una collezione di bandiere, ogni cinque minuti cambia nazionalità». «È proprio vero».

«Comunque ormai stanno riaprendo tante cose, finalmente. Anche in trattoria non c’è più bisogno di fare solo l’asporto» e porta di nuovo in alto il bicchiere. «C’è mia nipote che ha rimandato già due volte il matrimonio. Vuole la festa grande con tutti. Qui da noi si fa così. Si doveva sposare a maggio del 2020, poi a febbraio di quest’anno, ora ci riprova a luglio 2022. Meno male che nel frattempo non si sono lasciati».

«E perché mai?».

«Perché a forza di non sposarsi, poi magari passa la voglia».

«Invece è la prova che si amano davvero, no? Hanno pazienza. Poi Altomonte è pure uno dei borghi d’Italia famosi per i matrimoni, giusto? Tante coppie vengono a sposarsi qui».

Poi gli racconto di Sabrina, un’autista di autobus che a Verona è andata al suo matrimonio guidando proprio il numero 73, l’autobus che le è assegnato di solito, tutto addobbato a festa ed è andata verso la Tomba di Giulietta, dove si poi si è sposata.

«L’ha trasformata in una specie di carrozza, come quella di Cenerentola» dico.

«E la gente che doveva salire?»

«Per quel giorno i passeggeri erano solo gli invitati».

«Ma poteva? Si è fatta i fatti suoi fregandosene della gente?»

«Ha chiesto tutti i permessi».

«Ma ha tolto una corsa a chi ne aveva bisogno per lavoro e le altre cose personali, le persone anziane, tutti».

«Penso che ci sarà stato modo di prendere altre corse, no?» rispondo.

«Mah… fanno sempre tutti come gli pare» e dà l’ultimo sorso al suo rosé. Poi mi saluta e torna verso le scale da cui era sceso.

Chissà perché a volte la bellezza di certi momenti gioiosi degli altri, quando non fanno danno a nessuno, non vengono semplicemente accettati e condivisi. Tommaso Campanello mi guarda dall’alto della sua statua e non so proprio cosa possa pensare di questa mia considerazione.

Poco dopo sono in Via Roma e arrivo all’anfiteatro. Più sotto c’è il parcheggio dove ho lasciato l’auto e da lì avevo notato i mosaici realizzati da artisti nazionali e internazionali che decorano le nicchie esterne dell’anfiteatro. Vedo il manifesto della scorsa estate, che pubblicizza il Festival Euromediterraneo che si tiene qui da anni. Nel 2020, come in molti altri luoghi, per fortuna una serie di spettacoli si sono potuti tenere all’aperto e spero proprio che anche quest’anno sarà così.

Sulla terrazza di una casa gialla una signora mi osserva. La saluto con un lieve cenno della testa e le dico “Salve”. Lei lì per lì non mi risponde, poi invece mi fa un sorriso e ricambia. Mi indica l’anfiteatro.

«L’anno scorso da qui ho visto le letture di Piperno, belle. C’ho il posto d’onore qua».

«In effetti è vero, è come un balconcino a teatro».

«Eh! Quasi quasi lo affitto» e ride. «E poi è pure meglio della televisione» mi dice. «Non mi piace nulla della Tv, nemmeno la Venier, prima invece la guardavo sempre. Ma ora con gli anni che ha sta sempre a ridere sguaiata e si mette ancora le camicie scollacciate».

«Ma è una bellissima signora» dico.

«Appunto! E che ci si fa vedere così da vecchie? Non sta bene. Da vecchie ci si veste così» e si allontana un po’ dalla ringhiera, come per farmi vedere meglio il suo abito. «Il collo sta chiuso, mica aperto in quel modo là. Stanno sempre a dare spettacolo».

«A proposito di spettacolo, prima ho letto che all’Ospedale di Cetraro hanno messo una targa in ricordo delle vittime del Covid-19 con una cerimonia» dico.

«Eh, e hanno fatto bene».

«Poi hanno fatto un buffet tutti insieme, personale e autorità e ci sono state polemiche, per via delle misure di sicurezza e del fatto che stavano festeggiando, in pratica».

«Ah. Mangiavano e bevevano?»

«Sì».

«Come nei film americani, che quando muore qualcuno sembra un compleanno?»

«In pratica. Hanno detto che erano comunque tutti vaccinati».

«Allora no, non va bene. La gente morta si rispetta. C’amicu sinn’affliggi, ma amaru cu perdì u cavaju. Se vogliono fare le feste, le facciano in casa per le cose loro. Le targhe si mettono in silenzio. Si du malu pitignu». Poi vedo che cambia espressione e diventa più triste. «È morta mia cugina per il virus. Io non ho brindato. Si vede che quelli non erano morti loro.» Si sistema un fermaglio tra i capelli. Poi, come se quella nuvola di colpo venisse spazzata via dal vento, mi guarda. «Se lo goda, Altomonte, che è bello proprio. Ho sentito che Lei non è di qua. Vada, vada, che la vita è breve» e torna in casa così, senza aggiungere altro.

Prendendo quella sua ultima frase nel modo più positivo possibile, proseguo per Via Roma, poi per Via Rende. Passo nei vicoli, tra case e scalette, sento profumi di cucina dalle finestre, osservo i colori dei fiori nei vasi. Qui di solito ogni anno c’è la Gran Festa del Pane, a base di pane e olio e immagino le tante persone che popolano queste strade in tempi di non pandemia, le voci, le risate.

Passo davanti alla sede della Polizia Municipale, vedo delle belle lenzuola bianche che sventolano lì davanti, nell’aria c’è un buonissimo aroma di ammorbidente, continuo e dopo Via Colombo, arrivo in una piazzetta. Due ragazzini stanno giocando a pallone. Un tiro arriva in direzione di un signore, che cerca di palleggiare per rispedire da loro il pallone, ma si impappina un po’. Si accorge che l’ho visto e si mette la mano tra i capelli.

«Una volta ero bravo» mi dice.

Il pallone comunque torna dai due ragazzini che riprendono a passarselo, facendo zig zag tra le auto parcheggiate.

Scambio due parole con l’uomo, mi dice che ha un Bed and Breakfast da queste parti e che stamani sono arrivate delle prenotazioni per giugno.

«Bene» dico.

«Sì, speriamo di fare qualcosa in estate. La gente ha tanta voglia di andare in giro».

Noto che sulla sua mascherina c’è scritto «Vai ‘chi megghiu toi e facci i spisi».

«Che significa?» chiedo.

«Me la sono fatta fare. Vuol dire frequenta chi è meglio di te e, se puoi, impara da loro».

«Bella frase. Vera».

«Sì».

Poi guarda i ragazzini.

«Però anche se li guardo giocare, palleggiare bene comunque non mi riesce più!» e ride.

Poco dopo sono in piazza, davanti alla Chiesa di San Francesco da Paola. Mi guardo intorno e mi avvolge una sensazione particolare, come di un tempo lento, che non ha fretta di scorrere e ti permette di assaporare tutto. Quella signora mi ha detto che la vita è breve. E forse lo è ancora di più se nemmeno ti accorgi di quanto può essere bella. Lo diceva anche Abraham Lincoln che «Alla fine, ciò che conta non sono gli anni della tua vita, ma la vita che metti in quegli anni».

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