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Uno sbarco di migranti

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CROTONE – «Vorrei dire alle persone che si lamentano per il fatto che noi immigrati arriviamo in Italia che ognuno preferirebbe stare a casa sua; se noi partiamo non è per fare villeggiatura, ma solo perchè dove siamo nati abbiamo problemi e rischiamo la vita». Così Sofie (nome di fantasia) una donna della Costa D’Avorio, attualmente ospite al Cara Sant’Anna di Isola Capo Rizzuto, dopo un travagliato viaggio, in cui non son mancate torture, infibulazione, violenze fisiche e sessuali, riti tribali, oltre che uccisioni di parenti e minacce di morte.

Esperienze che Sofie racconta sin dall’inizio del viaggio, iniziato, idealmente, il venerdì 25 dicembre 2015 giorno della morte del padre. «Son partita – ribadisce la donna – dal mio Paese per sfuggire alla morte, dopo che mio padre è morto dopo una breve malattia». Malattia che, precisa, non si è mai saputo cosa fosse veramente. La giovane donna viveva in un villaggio e, a pochi giorni dal lutto, ha ricevuto, sabato 2 gennaio 2016, la visita di tre responsabili. Due gli scopi della visita: «Spiegarci le ragioni della morte di mio padre e dirci che lui aveva firmato un patto con il Djdje, il genio protettore del villaggio e che non ha rispettato». Il tutto parte da altre due morti violente nella famiglia di Sofie, quella di due suoi fratelli. «I responsabili del villaggio – continua nel suo racconto la donna – ci dicono che dopo la morte dei miei due fratelli maggiori, mio padre aveva chiesto la protezione della famiglia al genio e che era d’accordo che diventassi la moglie del genio». Il genio sarebbe una sorta di guru del villaggio. «Visto che – continua Sofie – mio padre non accettava più di rispettare la sua parte del patto, l’ha ucciso ed era capace di uccidere tutta la mia famiglia, uno dopo l’altro».

Con questa pressione, la giovane è stata obbligata il 5 gennaio 2016 a fare la cerimonia per diventare la donna del capo villaggio. «Mi hanno vestito di velluto rosso dopo avermi messo su tutto il corpo, il burro di karité e la polvere. Ero completamente nuda, ed avevo addosso solo una specie di lenzuolo e ci avviammo verso la foresta sacra. Con me c’erano cinque donne e tre uomini. Arrivati, poi, ad un livello della strada, hanno chiesto alle donne di fermarsi perché non era consentito loro di entrare in quella parte della foresta sacra. Dopo circa due chilometri siamo arrivati in un luogo dove ci sono sculture e disegni sui tronchi d’albero». E qui comincia il calvario delle violenze. «Mi hanno stuprato tutti e tre a turno e solo dopo che ho smesso di piangere, siamo tornati dove avevamo lasciato le donne che ci avevano accompagnato per un tratto». Insieme si sono diretti verso una piccola casa. «Siamo entrati io e le cinque donne – continua a raccontare Sofie – Mi hanno fatto sedere nuda con le gambe aperte di fronte a un mucchio di sabbia. Quattro donne mi hanno afferrato fortemente e la quinta mi ha mutilato con una lama i genitali. Ricordo ancora il dolore ogni volta che ci penso».

Dopo la doppia violenza subita, qualche spiraglio di speranza sembra aprirsi. «La compagna di mio zio si è offerta di aiutarmi. È così dopo due giorni, prima di partire, Adele ha dato 20 mila franchi a mia madre (l’equivalente di 30 euro) per curarmi e poi ha preso i miei documenti e la copia dei documenti dei miei genitori. Chiamava regolarmente mia madre per sapere come stavo». Quando la giovane ha comunicato di essere guarita dalle mutilazioni, la notizia è stata accolta bene da Adele. Non a caso, dopo tre giorni Adele «mi ha detto che dovevo andare ad Abidjan e che non avrei dovuto avere paura perché si sarebbe occupata di tutto lei. Così mandò a mia madre altri 30.000 franchi e le disse di comprarmi un Boubou nero con il velo come le musulmane». Un abito, questo, che di fatto lascia scoperti solo gli occhi. «E mi spiegò come dovevo andarmene. Intanto, dal giorno in cui mi avevano stuprata e mutilata, ogni sera, i tre uomini venivano tutte le sere, tra le 16 e le 18 per una trentina di minuti».

Alla fine, seguendo il consiglio di Adele sabato 27 febbraio 2016 Sofie ha lasciato la casa alle 19,30, dopo la solita visita dei tre uomini. «Vestita di Boubou nero – continua la giovane – sono arrivata ad Abidjan intorno alle 23. Adele mi aspettava alla stazione. Lunedì 29 febbraio, siamo andate al servizio passaporti e venerdì 4 marzo 2016 siamo andati all’aeroporto. Mi ha fatto anche delle foto che ha inviato a Natale ed ha messo le foto di Natale anche nel mio telefono, la persone che dovevo incontrare in Tunisia, per riconoscerci. Poi il 5 marzo sono arrivata in Tunisia, dove credevo di aver lasciato alle spalle il calvario subito, ma non era così. Mi son trovata nell’inferno. Non mi aveva aiutato, ma mi aveva venduto. Quando ci siamo incontrati, siamo andati in un caffè intorno alle 7 a Tunisi , poi siamo andati a Sfax, che è un’altra città. Arrivata, siamo andati di nuovo in un altro caffè dove mi ha spiegato che dovevo lavorare con una signora che dovrebbe venirmi a prendere da un momento all’altro. Poi, quasi 30 minuti dopo, è arrivata questa signora che le ha dato un sacco di soldi e me ne sono andata con lei. Prima di andare a casa, siamo andati a fare compere per me».

All’aeroporto la signora che l’aspettava e che ha scelto per lei dei vestiti e biancheria intima. «Arrivata a casa – prosegue la giovane donna – c’erano già altre quattro ragazze. Mi ha preso il passaporto e mi ha spiegato come dovevo fare la pulizia della casa con gli altri, e come dovevo vestirmi a casa. Già la stessa sera, sono stata picchiata e stuprata dai guardiani della casa perché ho rifiutato di fare sesso con un cliente». In pratica, l’avevano portata in una casa di appuntamento. «Ed era così – prosegue il racconto – ogni giorno venivamo violati e trattati come se niente fosse. Dovevamo ricevere fino a tre , quattro clienti al giorno. Finché non mi hanno aiutato dopo quasi tre anni, finendo questo calvario». L’aiuto, per Sofie, arriva da Fakri. «Era un cliente – continua Sofie – ma mi ha aiutato molto, soprattutto quando ha saputo della mia storia. Mi ha chiesto perchè avevo scelto quella vita e gli risposi che ero stato costretta e gli ho raccontato ciò che mi era successo. E un giorno mi ha preso per dormire a casa sua. Mi aveva “affitatto” per due giorni, come si era solito fare. Ma quel giorno aveva previsto tutto dicendomi che dovevo partire, per avere la possibilità di sopravvivere. Mi ha mandato da sua sorella dove sono rimasta per due giorni e poi è venuto a prendermi».

Così, intorno alle 21, dopo tre ore di viaggio, siamo arrivati e le ha spiegato il da farsi. «Mi ha spiegato che sarei dovuta andare in acqua e sarei stata fortunata. Piangemmo entrambi, ma poi mi ha dato tempo per parlare e se n’è andato». Sulla spiaggia c’erano altri tunisini oltre ad un altro gruppo di neri, che ci hanno portato in aiuto ad una piccola barca fino ad un’altra più grande».

A Lampedusa Sofie è arrivata lo scorso 16 ottobre, dopo tre giorni di viaggio. Il viaggio è stato complicato e per diverse volte la donna confessa di aver avuto paura di non farcela e di morire in mare. «Non mi pento del mio arrivo – ribadisce – perché anche se avevo paura, sono libera qui, anche se penso ancora a mia madre che è stata torturata dopo la mia partenza». Un viaggio fatto insieme ad altri 75 migranti, comprese donne e bambini.

Adesso, al centro S.Anna Sofie ha trovato la giusta assistenza, per le sue diverse patologie, e lo staff di accoglienza della Croce Rossa, diverse volte l’ha accompagnata all’ospedale di Crotone per fare delle visite. Ha anche un’assistenza psicologica, per superare le violenze subite, che ancora la condizionano. Adesso attende la commissione che dovrà decidere del suo futuro, che sono state fermate anche loro dall’emergenza Covid 19. Si sta curando, soprattutto, per raggiungere quello che è il suo sogno più grande, quello di diventare madre. E poi, vorrebbe rimanere in Italia, inserirsi e portare con sé sua madre, che, dopo la sua partenza, è stata sottoposta a violenza e tortura. La sua speranza è che, come è accaduto per lei, dopo un lungo calvario anche per la madre può arrivare uno squarcio di speranza e poter, così, riabbracciare la figlia e, magari, anche un nipotino.

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