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Panetti di cocaina

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CUTRO (KR) – Incredulità e stupore: sono le sensazioni che deve aver avvertito il genero della proprietaria di uno stabile, emigrata in Germania, che, su incarico della parente, era andato a controllare se i serbatoi dell’acqua fossero stati chiusi bene.

Ma quello che doveva essere un sopralluogo di routine in una casa temporaneamente disabitata si è trasformato in un incubo. Nel vano scala pertinente all’abitazione, l’uomo ha notato che il lucchetto della cassetta del contatore non apriva perché era stato sostituito di recente, quindi si è insospettito e lo ha forzato: quando ha aperto, ha scoperto che là dentro era stato nascosto uno zainetto con dentro della polvere bianca.

L’uomo ha subito chiamato i carabinieri, intervenuti tempestivamente. Sono scattati gli accertamenti. E quella polvere bianca è risultata essere cocaina, in gran parte purissima, in parte già confezionata in “pallini” per essere successivamente destinata al mercato illecito degli stupefacenti. Le indagini sono in corso.

È evidente che, nonostante la frazione San Leonardo di Cutro, borgo periferico scarsamente presidiato dalle forze dell’ordine fino a un passato neanche tanto remoto, nonostante sia stata teatro diretto di almeno cinque importanti operazioni antimafia e antidroga negli ultimi due anni – ricordiamo quelle denominate Malapianta, Infectio, Thomas, Golgota, Big Bang – è ancora al centro di traffici di stupefacenti, una delle “specialità”  delle cosche di ‘ndrangheta che là sono stanziate ma vantano proiezioni qualificate nel Catanzarese, in Umbria e nel Nord Italia. È evidente, anche, che coloro che hanno nascosto la droga a casa di insospettabili lo hanno fatto per eludere eventuali controlli a loro carico.

Una strategia non dissimile da quella svelata dal collaboratore di giustizia Dante Mannolo, figlio di Alfonso, vertice indiscusso delle famiglie di ‘ndrangheta operanti a San Leonardo di Cutro. Il pentito ha raccontato che di stupefacenti suo padre si sarebbe occupato sin dai primi anni Novanta insieme ai suoi fratelli, anche se successivamente si sarebbe dedicato ad altri “affari”, delegando quello della droga ai cugini (del collaboratore di giustizia, ndr) detti “pecorari” che avevano un controllo capillare del territorio grazie a un sistema di vedette che monitoravano gli accessi in paese.

Le armi, per esempio kalashnikov e fucili di precisione, venivano nascoste in terreni non di loro proprietà e la droga era occultata in nascondigli all’interno di case disabitate. Insospettabili che ora si ritrovano indagati per concorso esterno in associazione mafiosa fornivano anche disponibilità a nascondere il tesoretto del clan, tanto denaro in contanti soltanto in parte fatto ritrovare dalla “gola profonda”. I viaggi per rifornirsi di due, tre chili di droga al mese erano a San Luca, con colonne di auto a staffetta; il clan costituiva poi il canale di approvvigionamento per trafficanti di origine rom che spacciavano nelle piazze di Crotone e Catanzaro.

Un meccanismo ben oliato, che forse dopo le maxi retate e i maxi processi non si è ancora del tutto inceppato.

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