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CROTONE – Una ‘ndrangheta che per fare sempre più affari al nord e conquistare nuovi spazi nell’economia ha cambiato veste, «ha vestito un abito nuovo», “presentabile”, di fatto imprenditoriale, pur rimanendo fedele alla sua consolidata fama criminale». E’ questa la descrizione della cosca emiliana che emerge con maggior forza dalle 3.200 pagine della sentenza del processo Aemilia, che si è concluso a Reggio Emilia a ottobre con 118 condanne per 1.200 anni di carcere (LEGGI).

Dalle 195 udienze del dibattimento, scrive il collegio formato dai giudici Francesco Caruso, Cristina Beretti, Andrea Rat, è stata restituita un’immagine di un’associazione ‘ndranghetista «radicata solidamente, da decenni, sul territorio reggiano ed emiliano, sfruttando le caratteristiche e le potenzialità proprie del tessuto socio-economico di cui si è alimentata».

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Questa ora «ha indossato una veste prettamente imprenditoriale, grazie alla quale ha celato il suo tradizionale e rude volto, insinuandosi e mimetizzandosi subdolamente in settori criminali lontani da quelli tradizionali, ma non certo meno proficui di quelli, anzi, fortemente appetibili anche dalla cosca madre calabrese, sempre in cerca di nuove occasioni di arricchimento». Ma al di sotto e a fianco di quella veste, «essa ha tuttavia continuato a perpetrare la sua fama criminale secondo modalità tanto più temibili quanto meramente evocative, seppur costantemente pronta a fare concreta mostra della sua potenza criminale, grazie alla sua “ala militare”, per imporre con la forza della prevaricazione le sue regole, i suoi obiettivi, la sua volontà».

In ogni caso la capacità del sodalizio di infiltrarsi nel tessuto economico reggiano e emiliano «anche grazie alla ben più presentabile veste imprenditoriale e alla rassicurante opera di esponenti apparentemente “puliti”, insospettabili ed affidabili, ha rappresentato uno strumento fondamentale» non solo per generare e moltiplicare ricchezza, «ma anche per la cura e lo sviluppo degli interessi economici della cosca calabrese e del suo capo», cioé Nicolino Grande Aracri.

La sentenza si sofferma sul fatto che la cosca di ‘ndrangheta emiliana al centro del processo Aemilia è un’organizzazione autonoma, seppur fortemente legata alla casa madre calabrese. «L’imponente mole di prove raccolte nel corso del dibattimento – si legge – ha confermato l’insediamento sul territorio di Reggio Emilia e della sua Provincia di una cosca di ‘ndrangheta di derivazione cutrese, sviluppatasi e diffusasi anche sul territorio delle province emiliane limitrofe e di quelle della bassa Lombardia, dotata di autonomia sul piano decisionale, organizzativo, economico nonché su quello operativo della esteriorizzazione del metodo mafioso, manifestatosi su questi territori ove si sono consumati la totalità dei reati fine».

Lo conferma anche «l’autonoma determinazione di strategie pubbliche e politiche da adottare a tutela del gruppo anche nei momenti di fibrillazione» e la ricerca «di contatti con esponenti della politica, della pubblica amministrazione nonché della informazione locale, nel tentativo di influenzarla e di colpirla». Ma autonomia non significa «recisione di qualsiasi rapporto con la casa madre e con il suo capo», cioé Nicolino Grande Aracri. Ma implica, «innanzitutto, collaborazione in vista della massimizzazione del reciproco profitto». Né esclude «fedeltà e il rispetto che la cosca emiliana deve portare alla casa madre e al suo capo», che si traduce in un dovere di informazione, in un ritorno economico (il cosiddetto “fiore”).

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