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Carmine Greco in una foto d'archivio

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CROTONE – «Deve ritenersi provato che Carmine Greco abbia rivestito la qualità di concorrente esterno dell’associazione ‘ndranghetistica denominata “locale di Cirò” riconducibile al dominio delle famiglie Farao Marincola».

Si conoscono i motivi per cui nel dicembre scorso il Tribunale penale di Crotone ha condannato a 13 anni di reclusione il maresciallo Carmine Greco, già comandante della Stazione Forestale di Cava di Melis, competente su una vasta area del Parco nazionale della Sila, nonché ex consigliere dei ministri dell’Ambiente Clini e Galletti.

I giudici riqualificarono in concorso esterno in associazione mafiosa l’accusa originaria di partecipazione ad associazione mafiosa e ritennero provati anche i reati di rivelazione di segreti, omissioni d’atti d’ufficio e favoreggiamento.

Il collegio presieduto da Marco Bilotta (e composto, inoltre, da Federica Girardi, relatrice, e Odette Eronia), a fronte di una richiesta di 16 anni che era stata avanzata dal pm Paolo Sirleo (ma il procedimento è stato seguito nella fase delle indagini anche dal pm Domenico Guarascio), ha ripercorso in oltre 300 pagine le risultanze istruttorie giungendo alla conclusione che «può senz’altro affermarsi che sin dal 2011 Greco, prima quale appartenente al Corpo forestale e poi maresciallo dei carabinieri, abbia tenuto rapporti assolutamente non ortodossi e illeciti con diverse imprese boschive – e dunque con i suoi controllati – sostanziatisi in un continuo ausilio alle stesse al fine di evitare controlli della forestale e di coadiuvare gli imprenditori di volta in volta coinvolti nonché nella rivelazione di imminenti attività di controllo di polizia giudiziaria».

LE CONNIVENZE

Un «modus operandi criminale», secondo i giudici, come quello che Greco adottava con gli imprenditori Vincenzo Zampelli e Bruno Tucci di Acri, condannati nel filone del rito abbreviato del maxi processo Stige contro il “locale” di Cirò in quanto rientranti nel cartello controllato dalla super cosca per il tramite del referente nei boschi Vincenzo Santoro. Un «ausilio incondizionato» che si concretizzava anche nell’«aggiustare» risultanze di sopralluoghi.

«Ancora più esemplare» la «condotta criminale» tradottasi in un«’intercessione diretta» con altri colleghi forestali «al fine di garantire assenza di controlli» nel lotto boschivo in cui operava l’imprenditore di Luzzi Salvatore Gencarelli, ritenuto “vicino” a Santoro. «In odor di mafia» viene considerata anche la condotta tenuta con l’imprenditore Carlo Pedace avvisato da Greco di un sopralluogo da parte di una guardia ex Afor «per permettergli di sistemare la zona prima di un controllo più approfondito». Ma l’imputato avrebbe compiuto ingerenze su altri forestali anche per evitare una sanzione all’imprenditore Eugenio Federico impegnato nella pulitura di stradelle dell’Arciconfraternita del Santissimo Sacramento.

LA MAFIA DEI BOSCHI

L’«apice», però, lo si raggiunge nel rapporto con gli imprenditori Antonio e Rosario Spadafora di San Giovanni in Fiore, ritenuti esponenti del “cartello cirotano”.

La tesi difensiva, sostenuta dagli avvocati Franco Sammarco e Antonio Quintieri, secondo cui il rapporto con Antonio Spadafora era legato solo al fatto che questo fosse un “confidente” nell’ambito di un’inchiesta della Procura di Castrovillari sulla dirigente di Calabria Verde Antonietta Caruso non ha retto al vaglio dei giudici secondo cui le informazioni fornite costituivano «una parte del corrispettivo in cambio dell’ausilio nel mantenimento dell’egemonia territoriale sulla gestione degli appalti boschivi». Piuttosto, sempre secondo il collegio giudicante, «tra Greco e gli Spadafora esisteva un accordo implicito sulla base del quale, da un lato, l’imputato s’impegnava a tenere indenni da controlli della Forestale le ditte degli Spadafora e, dall’altro, gli imprenditori boschivi s’impegnavano a fornire “soffiate” al maresciallo circa eventuali irregolarità di taglio poste in essere da ditte non appartenenti al cartello cirotano». Così la cosca avrebbe mantenuto «la gestione della cosa boschiva nell’altopiano silano». Un’ottica mediante cui leggere tutti gli episodi di connivenze, dalla rivelazione di segreti ai ritardati controlli al favoreggiamento consistito nell’abbandonare il servizio per occuparsi di altra indagine.

RICHIESTE DI AIUTO DEGLI ARRESTATI

Ma a favorire la decisione del collegio è stato anche il «peculiare comportamento» tenuto da Greco dopo l’arresto degli Spadafora nell’operazione Stige. Greco si procura il fascicolo per verificare le accuse sui suoi informatori, e dopo aver appreso che ci sono elementi d’indagine anche a suo carico bonifica gli uffici e mobilita i suoi sottoposti perché lo aiutino nell’analisi degli atti «quasi a voler già precostituire una difesa».

L’«avvenimento più caratteristico», rileva il Tribunale, è la «richiesta di aiuto processuale» di Antonio Spadafora a Greco, cui fanno da sfondo le intercettazioni in carcere in cui l’imprenditore esorta la moglie e la madre a rivolgersi al maresciallo definito come «il nostro». Pochi giorni dopo tale colloquio, si registra una «singolarità», ovvero la telefonata dell’avvocato Franz Caruso, difensore di Antonio Spadafora, a Greco e il loro successivo incontro nello studio del professionista, anche se «l’apice della vicenda» si manifesta nel colloquio tra il maresciallo e le quattro mogli degli Spafaora presso la Stazione di Cava di Melis. Per i giudici «E’ chiaro che se le donne degli Spadafora non avessero avuto la certezza di trovare un aiuto nel maresciallo non si sarebbero rivolte ad un ufficiale per questioni legate alla custodia cautelare dei congiunti».

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