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Il boss di Cutro Nicolino Grande Aracri avrebbe dato l'ordine di uccidere i fratelli Turà

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CUTRO (CROTONE) – «Non risulta dimostrata l’integrazione dell’aggravante mafiosa, nella sua duplice declinazione, non ravvisandosi indicatori concreti né della contestata finalizzazione della condotta ad agevolare una consorteria mafiosa (occorrendo che lo scopo sia quello di contribuire all’attività di un’associazione operante in un contesto di matrice mafiosa, mai evocato o emerso nel caso di specie),  né dell’evocazione di una qualche contiguità ad una associazione mafiosa o dell’uso di una la forza intimidatrice tipica dell’agire mafioso».

Per questi motivi il gip distrettuale di Catanzaro Francesco Antonio Rinaldi esclude l’aggravante mafiosa contestata dai pm Antimafia Domenico Guarascio ai cinque arrestati per estorsione e usura nell’operazione Turos, nome in codice per il blitz che prende il nome dall’indagato chiave, Giuseppe Turrà, indicato dai pentiti come contiguo alla ‘ndrangheta.

Secondo il gip, le rivelazioni dei collaboratori di giustizia, pur evocando una vicinanza dei membri della famiglia Turrà al contesto mafioso, non si prestano a far ritenere la sussistenza dell’aggravante. Questo nonostante il pentito Giuseppe Liperoti abbia riferito agli inquirenti che «Pino Turrà»  possiede «ville, yacht, Maserati», e che i soldi li ha guadagnati «per il mezzo di una copiosa attività di usura che lo stesso ha sempre svolto anche in accordo alla cosca Trapasso e Mannolo  e per conto delle stesse e insieme al cutrese Alfonso Salerno, dipendente comunale» (assolto nel processo Kyterion dall’accusa di mafia, ndr).

Ma le sue dichiarazioni non sono riscontrate, così come quelle di Francesco Tornicchio, che indica Turrà come vicino alla cosca Grande Aracri,  e di Antonio Valerio, che «ha più volte ribadito» che l’indagato «svolgeva attività di usura in un territorio controllato da consorterie cutresi senza l’autorizzazione». «Usura non autorizzata… rompeva un po’ le scatole…». Valerio, evidenzia il gip, non ha peraltro precisato se Turrà corrispondesse il cosiddetto “fiore”.

«Ma Pino Turrà faceva il regalo, il fiore, a Nicolino Grande Aracri?», chiede il pm Guarascio. E Valerio: «E se lo faceva nella giusta maniera questo non credo». Lo stesso collaboratore di giustizia afferma che era stata deliberata da parte del super boss l’uccisione di Turrà e del fratello proprio a causa dell’esercizio dell’usura senza il permesso del clan. Dead man walking, erano i Turrà, secondo il pentito. «Turrà Roberto… e suo fratello Salvatore, Pino doveva essere ammazzato giù, ma prima doveva morire  Roberto perché è più… vivace, è più capace». E ancora: «Allora giù c’erano degli interessi che stavano facendo, soprattutto Pino stava facendo qualche cosa di usura… Quindi l’ordine era di Cutro, ecco perché me lo dà direttamente Grande Aracri, non vuole mettere a conoscenza tante persone, sa che di me può avere questo servizio e alla fine l’altro gruppo che era Sarcone dovevano uccidere Salvatore, però prima doveva partire Roberto… “Ammazza Pino e vedi che cosa succede con Roberto…”  Roberto perché era più diavolo diciamo».

Ma a quanto ammontava questo giro non autorizzato (dalla ‘ndrangheta) di prestito a strozzo? «Si parlava qualcosa di milioni di euro».

Quindi Valerio viene convocato dal mammasantissima per uccidere Roberto Turrà ma in realtà l’obiettivo sarebbe stato suo fratello “Pino”.

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