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La campagna toscana

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CUTRO (KR) – Come si fa a pagare un milione e mezzo di euro in contanti? «L’affare era nato perché c’era il denaro delle cosche da investire». Almeno questa è la spiegazione che offre il collaboratore di giustizia Salvatore Muto, uno di quelli sentiti dalla Dda di Firenze nell’ambito di un’inchiesta che ha fatto luce sulle infiltrazioni della super cosca Grande Aracri di Cutro in Toscana.

Ecco perché gli agenti del Centro operativo della Dia e della Squadra Mobile della Questura di Firenze hanno eseguito un decreto di sequestro preventivo, emesso dal gip Angelo Antonio Pezzuti, nei confronti di due imprenditori agricoli, Francesco Saporito, 80enne di Petilia Policastro, e Edo Commisso, 58enne di Marcedusa, da anni trapiantati in Toscana.

I due sono indagati per riciclaggio con l’aggravante mafiosa poiché avrebbero impiegato nella propria attività economico-imprenditoriale agricola denaro, per un importo di almeno 1.500.000 euro, riconducibile ai traffici dell’organizzazione criminale capeggiata dal boss di Cutro Nicolino Grande Aracri e della cosca alleata di Petilia Policastro.

I sigilli sono scattati su porzioni immobiliari di tipo rurale ubicate a Chiusdino, nel Senese, acquistate nell’agosto 2007, e consistenti in un fondo agricolo in unico corpo, con sovrastanti alcuni vecchi fabbricati ed annessi rurali, per una consistenza catastale di oltre 350 ettari ed un valore commerciale complessivo di circa 5 milioni di euro. In particolare, Saporito, quale acquirente, con la mediazione di Commisso, che sarebbe stato incaricato dalla cosca di sovrintendere ai propri interessi in territorio toscano, avrebbe stipulato un contratto d’acquisto dei terreni con destinazione agricola versando alla titolare della società cooperativa agricola San Galgano, venditrice, oltre alla somma concordata, 1,5 milioni in contanti che Saporito avrebbe dovuto investire per conto del clan. Il pentito Muto sostiene che Saporito aveva acquistato l’azienda agricola San Galgano «almeno in parte con denaro delle cosche Grande Aracri e Manfreda di Petilia… non aveva restituito questi soldi… vi era un’azienda agricola vicino all’abbazia di fatto gestita e acqusitata con investimenti in denaro della cosca di Petilia…».

E ancora: «Commisso diceva che Saporito non poteva denunciare nulla perché i soldi della ‘ndrangheta gli avevano fatto comodo e li aveva presi». Sempre secondo il pentito, «Saporito è sempre stato un imprenditore vicino all’organizzazione tramite il genero Ettore Ierardi…godeva della massima fiducia del capo». Sul ruolo di Commisso, Muto precisa che «aveva l’incarico di gestire l’azienda, reclutare e pagare gli operai e spesso si lamentava anche con me che Saporito pretendeva si facesse come diceva lui». Insomma, Commisso gestiva effettivamente ma il titolare formale, il «prestanome della cosca» sarebbe stato Saporito. Muto era a conoscenza di queste dinamiche poiché, a suo dire, era stato incaricato a sua volta, da parte di Francesco Lamanna, braccio destro del boss Grande Aracri, di verificare la gestione dell’azienda per conto del clan e quindi sapeva anche di un contrasto tra Saporito e la casa madre della ‘ndrangheta.

«Dovettero intervenire i capi della cosca di giù, io dovevo verificare che venissero rispettati gli accordi…Saporito non aveva ancora restituito quei soldi». Insomma, la cosca Grande Aracri sollecitava che i soldi versati per l’investimento tornassero indietro. Significativa in tal senso una conversazione intercettata agli atti dell’inchiesta, nell’ambito della quale Muto dice a Commisso: «piglia tutto, prendi chiama, abbiamo commercialisti, architetti, ingegneri, abbiamo soldi, abbiamo tutto noi, capito? Non guardare il prezzo». Il prezzo dichiarato nell’atto di compravendita – tre milioni e 980 mila euro – era nettamente inferiore rispetto al valore di mercato dell’epoca per cui gli inquirenti ipotizzano che quella somma versata in contanti forse la parte eccedente. In nero, ovviamente. L’inchiesta è stata diretta dal capo reparto della seconda sezione della Dia nazionale Lorena Di Galante.

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