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Il pentito Luigi Bonaventura

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Abbandonati dallo Stato anche se spezzano la catena dell’omertà e denunciano. Sembra un leit motiv, ma i precedenti al caso del collaboratore di giustizia Luigi Bonaventura, ex reggente della cosca Vrenna Bonaventura Corigliano di Crotone, ci sono e sono inquietanti: pentiti e testimoni di giustizia con il contributo dei quali vengono stangati boss, gregari e colletti bianchi organici ai clan subiscono un trattamento disumano e sono sempre più a rischio.

Bonaventura, o, meglio, sua moglie Paola Emmolo, ha dovuto fare ricorso al Tar del Lazio per far sospendere la revoca della protezione per i propri familiari, come già riferito dal Quotidiano.

Lui ne era peraltro personalmente sfornito dal 2014 pur testimoniando in processi sparsi in mezza Italia, e nonostante la Dda di Catanzaro e la Dna abbiano espresso parere favorevole alla proroga della protezione; e senza scorta i coniugi Bonaventura si sono dovuti presentare l’altro giorno alla Commissione parlamentare antimafia che li ha auditi.

Ora l’organismo presieduto dal calabrese Nicola Morra andrà in missione nelle Marche, regione sempre più infiltrata dalla ‘ndrangheta e sempre più a rischio, come da tempo denuncia Bonaventura. Perché le località cosiddette protette sono coperte dal segreto di Pulcinella e la ‘ndrangheta sa quali sono le regioni deposito di collaboratori di giustizia. Ex oasi felici.

È appena il caso di ricordare il caso di Lea Garofalo, la testimone di giustizia di Petilia Policastro scomparsa nel 2009 a Milano, uccisa, bruciata e i cui resti furono rinvenuti in un tombino. Lea Garofalo poteva essere salvata. Soltanto undici giorni prima di scomparire nel nulla, alla donna fu revocato il programma di protezione dalla Commissione centrale del Ministero degli Interni, la stessa che l’ha tolta a Bonaventura.

Soltanto undici giorni prima di finire, a Milano, in quella che sua madre, Santina Miletta, come disse al Quotidiano, definì una «trappola». La richiesta di rinuncia alla tutela la Garofalo la fece il 9 aprile 2009, vale a dire meno di un mese prima del tentativo di rapimento avvenuto a Campobasso e risalente, in particolare, al 5 maggio.

La parola «trappola», con riferimento a quella circostanza, si trova, stavolta, nell’ordinanza di custodia cautelare in carcere firmata dal gip del Tribunale di Campobasso Teresina Pepe, per il tentato rapimento, e in quella del gip di Milano Giuseppe Gennari, per l’agguato mafioso peraltro derubricato a femminicidio. Una «vera e propria trappola al fine di portare a termine ciò che in Campobasso non era stato possibile fare». Appena Lea usciva fuori dall’egida dello Stato, qualcuno veniva a saperlo e metteva in campo i suoi progetti di morte. Ma il caso Garofalo, a quanto pare, non docet.

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