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L'aula del processa Aemilia

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CUTRO – L’hanno raggiunto nella località protetta, l’hanno pestato a sangue, in tre, e lo hanno minacciato pesantemente, intimandogli di ritrattare. Di rifarsi il giro dei processi contro la super cosca di Cutro sparsi in mezza Italia e di negare le accuse. È successo il 18 aprile scorso, ma la notizia è trapelata soltanto successivamente. Si trova ancora in ospedale, con una prognosi di 30 giorni e le ossa rotte, il collaboratore di giustizia Paolo Signifredi (NELLA FOTO), 53enne di Baganzola in provincia di Parma, ritenuto il “commercialista” della cosca Grande Aracri.

Nel processo Pesci, contro la cellula mantovana del clan, il Tribunale di Brescia lo ha condannato a sei anni di reclusione per estorsione e associazione mafiosa (la sentenza di primo grado è stata appellata), mentre nel processo Aemilia è stato sentito come testimone in quanto  gli inquirenti lo ritengono coinvolto in una maxi-frode da 130 milioni con l’acciaio, compiuta nientemeno che con Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo e superteste nel processo sul presunto patto Stato-mafia. Infine, sue rivelazioni sono state utilizzate dalla Dda di Catanzaro nell’inchiesta Stige, contro il “locale” di ‘ndrangheta di Cirò, inchiesta in cui c’è anche un filone cutrese.

“Io comunque ho avuto rapporti con alcune persone che rappresentavano Nicolino Grande Aracri al Nord, in particolare con Francesco Lamanna e Salvatore Muto”.

In particolare, l’uomo ha svelato il meccanismo delle fatturazioni per operazioni inesistenti, una specialità dei cutresi che ne emettevano in quantità industriali prima delle maxi retate, i proventi delle quali andavano alla ‘ndrangheta cutrese.Signifredi è noto a Reggio Emilia anche per essere stato, negli anni  tra il 2003 e il 2004, presidente della squadra di calcio del Brescello, primo Comune oggi sciolto per ‘ndrangheta in Emilia.

La sua collaborazione con la giustizia è iniziata nell’agosto 2015, a pochi mesi dalla manovra a tenaglia con cui furono colpite la cosca di Cutro e le sue proiezioni al Nord da ben tre Dda – quelle di Bologna, Brescia e Catanzaro – con le operazioni Aemilia, Pesci e Kyterion. Proprio deponendo nel processo Aemilia aveva parlato di minacce subite nel carcere di Voghera da uno degli imputati del processo Pesci, Antonio Rocca, che gli chiedeva di collaborare con la giustizia, altrimenti lo avrebbe sciolto nell’acido o dato da mangiare ai maiali, dettandogli il resoconto di alcuni fatti che avrebbe dovuto riferire in aula per scagionarlo da alcune accuse.

I due si erano già conosciuti nel 2011, in quanto Rocca aveva un’azienda in crisi e, non potendola sanare, Signifredi gli consigliò di metterla in liquidazione. Ma Signifredi ha parlato anche di minacce subite da Salvatore Muto, oggi pentito, che gli puntò una pistola alla tempia mentre assisteva a un diverbio e gli faceva presente che doveva fare riferimento a Francesco Lamanna, capo della costola mantovana del clan, e non a Rocca. Ma Signifredi ha raccontato anche di avere incontrato, “di persona personalmente”, nel giugno e nell’agosto 2012, il super boss Grande Aracri a Cutro, e di aver conosciuto anche Antonio Valerio, altro imputato di Aemilia oggi pentito, perché un suo amico reggiano aveva bisogno di soldi.

La proposta di Valerio fu di restituirli con un interesse del 7% alla settimana. L’episodio balza all’attenzione tanto più se lo si mette in rapporto con le minacce subite, nel luglio scorso, da un altro pentito della super cosca, l’ex cassiere del clan Giuseppe Liperoti, al quale sconosciuti incendiarono la residenza estiva nella frazione Steccato di Cutro. Oppure se lo si mette in rapporto con le falle del sistema di protezione. La storia di Lea Garofalo docet. La testimone di giustizia, prima di essere uccisa a Milano nel dicembre 2009, subì un tentativo di rapimento, alcuni mesi prima, a Campobasso, la località cosiddetta protetta.

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