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CATANZARO –  Dalla bassa manovalanza all’organicità alla ‘ndrangheta. Il salto di qualità è stato fatto da tempo dai gruppi criminali rom che imperversano in Calabria. Sono stati ormai  ammessi nella complessa struttura formale della criminalità organizzata calabrese i clan degli “zingari”.

La conferma, sia pure indiretta, viene dall’ultimo blitz antidroga, quello denominato Aesontium, perché il principale fornitore, per anni, dei gruppi rom stanziati in viale Isonzo sarebbe stato quel Santo Mirarchi, oggi collaboratore di giustizia e poi divenuto referente della cosca Arena di Isola Capo Rizzuto nel capoluogo calabrese.

Lo spartiacque è  l’uccisione di “Toro Seduto”, al secolo Domenico Bevilacqua, capo storico della criminalità rom di Catanzaro, ritenuto referente dei boss nella gestione di una serie di attività illegali, dalla droga alle estorsioni; uccisione avvenuta nel giugno 2015, dopo che già dieci anni prima l’uomo era scampato a un agguato teso dai clan di Isola Capo Rizzuto, i cui sicari lo ferirono gravemente sfigurandogli il volto.

Da allora la zona del quartiere Lido a Catanzaro rimaneva in mano a Cosimo Abbruzzese, alias “’U Tubu”, e Santo Mirarchi, capo di un gruppo emergente, disposto a tutto pur di ottenere il riconoscimento da parte delle consorterie mafiose del Crotonese. Degli Arena di Isola in particolare. L’obiettivo era raccogliere più denaro possibile dalle estorsioni e assumere il controllo del capoluogo.

LA GOLA PROFONDA

La “squadra” di Mirarchi provvedeva alla materiale organizzazione degli atti intimidatori confezionando anche gli ordigni esplosivi da posizionare, generalmente consistenti in bottiglie “molotov”. Così come provvedeva a recuperare le somme di denaro versate in corrispondenza delle festività pasquali, natalizie e ferragostane da gestori di pub, ristoranti, lidi, imprese, sale giochi. Mirarchi, dopo una serie di arresti, alla fine decide di collaborare con la giustizia. Ed è venuto fuori che sarebbe stato lui l’uomo degli Arena a Catanzaro, tanto più che condivise la cella con Paolo Lentini, detto “Pistola”, indicato dagli inquirenti come il reggente della cosca isolitana nell’arco temporale inquadrato dalla mega inchiesta Jonny.  

Proprio le rivelazioni di Mirarchi hanno offerto uno spaccato delle vicende della cosca Arena nel territorio di Catanzaro, dove gli era stato chiesto di operare per loro conto da Nico Gioffrè. Mirarchi, insomma, sarebbe stato l’”azionista” della cellula catanzarese degli Arena, con particolare riferimento alle attività estorsive, alla riscossione del “pizzo” e all’approvvigionamento di armi.

Ma, in particolare, è stato lui, per anni, il principale rifornitore dei trafficanti che smerciavano droga in viale Isonzo, affare per anni gestito in piena autonomia da gruppi consolidati. Come i “Muntanari”, che avevano capacità di spaccio di 300 grammi di cocaina ogni due settimane in viale Isonzo, epicentro dell’operazione interforze scattata ieri, mentre nel quartiere Pistoia ne giravano 50 grammi a settimana.

PARENTELE  E SINERGIE

A Crotone i rom sono entrati nella ‘ndrangheta attraverso un legame di parentela. L’inchiesta Hydra, contro le nuove leve del clan Vrenna, scattata nel 2009, svelò che Antonio Vrenna, figlio dell’ex boss Pino e in quella fase capo della cosca, aveva come suo braccio destro il cognato Giuseppe Passalacqua, vertice della comunità rom di via Acquabona a cui era demandata la gestione dei traffici di droga.

In quel dedalo di viuzze strozzate da case abusive, da lungo tempo assurto a market degli stupefacenti all’aperto, e in cui peraltro insiste un polo scolastico, uno dei capi del clan rom, Antonio Berlingeri, o presunto tale, è stato arrestato proprio l’altro giorno per il possesso di un chilo e 200 grami di cocaina. I canali di approvvigionamento dei rom crotonesi e catanzaresi, tra loro legati anche da parentele – i cognomi sono sempre quelli ricorrenti – sono nel Reggino e a San Leonardo di Cutro, grazie alle sinergie con le cosche della Piana e della Locride e a quella con la famiglia dei Mannolo, stanziata nella frazione cutrese ma con proiezioni soprattutto nel Catanzarese.

Sinergie anche al Nord, in Emilia in particolare, dove i Grande Aracri di Cutro per anni si sono serviti della manovalanza degli Amato originari di Rosarno, poi condannati per associazione mafiosa nel maxi processo Aemilia.

IL MISSILE

Spostiamoci nel Cosentino. Negli anni di piombo, gli uomini del clan capeggiato da Leonardo Portoraro, il boss di Corigliano Calabro ammazzato nel 2018, davanti al suo ristorante di Villapiana, non osavano mettere il naso fuori dall’uscio di casa loro. Perché il clan avverso degli zingari, guidato da Franco Abbruzzese, stava sterminando i suoi nemici, per preparare l’ascesa, sotto l’egida del “locale” di ‘ndrangheta di Cirò. Per questo gli zingari pensavano di far fuori uno degli uomini di Portoraro, che allora era detenuto, sparandogli un bel missile mentre era in casa sua.

Parola del collaboratore di giustizia Pasquale Perciaccante, che quando venne sentito nel 2007 dall’allora comandante del Reparto operativo dei carabinieri di Crotone Luigi Di Santo, che appunto indagava sul “locale” di Cirò, raccontò che «a tutti quelli del clan di Portoraro dovevano ammazzare, però questo qua si era chiuso in casa e non usciva più, e Franco Abbruzzese aveva deciso di buttare questo missile dentro la casa a questo qua». Il progetto non andò in porto perché «c’erano i bambini, la madre…ed è rimasto vivo questo qua», mentre «del clan di Portoraro sono state ammazzate parecchie persone».

C’entrava qualcosa, questo grumo sanguinoso di eventi, con l’azione eclatante compiuta da un commando di incappucciati armato di kalashnikov? Difficile dirlo, fatto sta che a coordinare le indagini dei carabinieri del Comando provinciale di Cosenza e della Compagnia di Corigliano il capo della Dda di Catanzaro Nicola Gratteri mandò il sostituto Domenico Guarascio, del pool di magistrati che ha condotto la mega operazione Stige, sfociata in 170 arresti con cui nel gennaio 2018 il “locale” di Cirò e le sue propaggini nel Cosentino, al Nord Italia e all’estero furono disarticolati. Fatto sta che all’epoca, quando gli zingari «hanno cominciato ad ammazzare tutti quanti», lo fecero «sotto gli ordini di Cirò». Fu la partecipazione di loro uomini alla strage di Strongoli del febbraio 2000, come attestato da vecchie inchieste antimafia, a consentire agli “zingari” di aprire un “locale” a Cassano allo Jonio, con l’avallo dei “cirotani”, che da tempo dettavano legge nell’area.

«Loro dopo ci hanno aperto questo locale per mettere a capo Franco Abbruzzese a Cassano, a Rossano Nicola Acri, a Castrovillari Antonio Di Dieco… sempre a Cirò facevano». Lo stesso pentito in un altro interrogatorio ha raccontato al pm Vincenzo Luberto cosa è successo subito dopo: «qualcuno che pagava al clan Portoraro, allora noi abbiamo detto: “adesso lascia stare a quel clan, adesso paga a noi”».

La guerra era tra la cosca Portoraro legata al clan “Bella Bella” di Cosenza e il gruppo di Abbruzzese che poi si alleò con i cirotani. 

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