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Jerzy Stuhr

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CONTINUA il nostro viaggio nel cinema fuori dagli sche(r)mi. Questa settimana abbiamo travalicato i confini nazionali e siamo approdati in Polonia dove vive Jerzy Stuhr, drammatico ed intenso attore di teatro e di cinema, interprete amatissimo da autori come Andrzej Wajda e Krzysztof Kieslowski ma anche sceneggiatore e regista di opere raffinate e malinconiche. Premiato nel 2018 dalla Cineteca della Calabria come ambasciatore della cultura polacca in Italia, Stuhr ci risponde dalla sua casa fuori Cracovia dove torna quando non è in giro con i suoi spettacoli.

Maestro, lei che è abituato a viaggiare tra la Polonia dove vive ed il resto d’Europa, che cosa fa in questo momento di pausa forzata in cui non può viaggiare e nemmeno recitare?

«Nonostante tutte le circostanze cerco di essere ottimista. Cosi ho guardato al mondo in tutta la mia vita. Vorrei che l’ottimismo fosse presente anche in questa intervista. Per tutta la mia esistenza sono sempre stato in viaggio: tournée, visite, spostamenti cinematografici. Allora sentivo un grande desiderio di fermarmi. Stare solo, in silenzio. Ora mi è capitato proprio questo e ne sono abbastanza soddisfatto. Dico abbastanza perché non è una decisione mia ma imposta dalla legge. Però ora c’è una certa calma nella mia vita professionale. È un fatto positivo. Non sono più giovane però grazie alla mia carriera lavoro tantissimo. Più di 250 repliche all’anno in teatro. Allora, anche in questo campo la pausa è positiva ed il fatto di non essere presente ogni sera sul palcoscenico mi fa bene. Sono felice quest’anno di curare in primavera la mia casa in montagna, in Polonia. Di solito faccio i lavori in giardino in giugno (siamo al Nord, fa ancora freddo). Così sto vivendo abbastanza bene».

La pandemia da coronavirus modificherà la fruizione del cinema e del teatro? Saremo costretti a vederli in streaming o in televisione, come vogliono farci credere?

«Anche in questo campo vedo le cose positive. Tanti centri culturali (teatri di prosa, lirici, cabaret) mandano le loro produzioni su internet. Ho visto un sacco di spettacoli che altrimenti non avrei potuto vedere. Finalmente ho potuto vedere tutta l’opera di grandi maestri del cinema soprattutto del mio amato cinema italiano: tutto Fellini di nuovo, tutto Antonioni di nuovo, tutto Moretti di nuovo. Affascinante! Poi io sono, innanzitutto, filologo, quindi la lettura è per me un grande amore. Finalmente ho il tempo di leggere quello che voglio e non quello che devo perciò sono tornato ai vecchi capolavori letterari: Kundera, Mann, Pirandello (mio amato) Sciascia. Grande godimento! Allora, anche in questi condizioni ci si può arrangiare».

Il virus si è rivelato un’occasione sprecata per gli Stati europei che non sono riusciti a portare avanti una politica unitaria. Possiamo dire, allora, che l’Europa della Dignità, dell’Uguaglianza, della Solidarietà, non esiste?

«Non posso dire come la questione è vista dagli italiani. La chiusura delle frontiere è il segno di una certa vigliaccheria europea. Però si può capire perché: tutto il mondo è sorpreso dalla pandemia e non trova un’altra via se non chiudersi e nascondersi. Questo forse mi manca di più. Sì, forse l’Unione Europea e le sue decisioni non si vedono soprattutto sul piano della collaborazione però dei 55 milioni designati per l’aiuto, la Polonia ha ricevuto 13 milioni. Non possiamo lamentarci. La cosa più importante è la nascita di iniziative di solidarietà dal basso, fra la gente. In Polonia siamo molto orgogliosi dei medici polacchi che sono venuti in Italia per aiutare i colleghi negli ospedali di Brescia. Ne parlano tutti i giornali. Questa iniziativa si espande perché gli stessi medici hanno raccontato di quanto hanno imparato dai colleghi italiani. È una collaborazione incredibile! Questa è la vera Europa».

Krzysztof Kieslowski, regista di cui lei è stato interprete intenso ed amato, ha basato tutta la sua cinematografia sulla spiritualità. Come avrebbe raccontato questo momento di trasformazione epocale?

«Conosco bene Kieslowski, siamo stati amici per tanti anni e direi che, nelle condizioni estreme in cui ci troviamo oggi, lui si muoverebbe sul piano sociale. Spegnerebbe la sua spiritualità ed agirebbe in maniera pratica. Ricordo come aiutò i colleghi dell’ambiente cinematografico durante lo stato d’assedio del 1981 sotto il regime di Jaruzelski. Andò persino a parlare con i generali per difenderli. Penso che oggi farebbe il volontario».

Come avrebbe raccontato la pandemia?

«Penso che il suo protagonista sarebbe un medico, la mattina applaudito per il suo sacrificio nel curare i malati e nel pomeriggio odiato ed escluso dai vicini che lo sospettano di essere contaminato».

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