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NON pensavo scatenasse il putiferio di queste ore la mia adesione a un dibattito su un libro di Stefano Delle Chiaie in qualità del ruolo che svolgo di giornalista e indagatore di Memoria. La lontananza dalla mia città mi ha evidentemente fatto smarrire il contatto con il radicamento diffuso di pratiche politiche che da circa un ventennio non appartengono più al mio agire e, ancor meno, mi è completamente sfuggito (elemento beffardo) il valore simbolico che il mio nome e la mia storia esercita (forse oggi è meglio dire esercitava) nei confronti di giovani antagonisti e ultrà. 

Le mie uniche preoccupazioni sono state orientate al fatto che l’incontro non fosse organizzato sotto le insegne di formazioni oggi attive nel campo neofascista ma per il resto ho trovato assolutamente normale  che si potesse discutere con l’autore di un testo atteso da anni dagli addetti ai lavori. Faccio parte, a livello modesto, di una strana conventicola di giornalisti e storici che nel corso del tempo non ha mai mollato nel pervicace bisogno di raccontare come si sia veramente svolta la storia d’Italia nel suo drammatico risvolto di guerra civile ancora non riconosciuta. Siamo quelli che abbiamo rotto le scatole a superiori e colleghi che ci dicevano “Ancora con questa Piazza Fontana”, siamo quelli che abbiamo dovuto riscontrare le baggianate ideologiche delle controinformazioni di ogni colore, siamo quelli che revisioniamo le verità interessate delle Procure e dei partiti, siamo quelli che cercano notizie in archivi spariti e da testimoni in punto di morte. 

Inseguivo Stefano Delle Chiaie da 15 anni. Durante la sua permanenza calabrese ha rifiutato sempre le mie richieste d’intervista e da buon giornalista di periferia comprendevo che un personaggio di quel peso parla con Zavoli, Biagi, Bocca. Nasce da qui l’elemento chiave che mi ha spinto a pensare di poter raccogliere elementi preziosi per le mie valutazioni e conoscenze in un confronto pubblico. 

Non è stato per me ostacolo che l’iniziativa sia partita da ex aderenti al neofascismo cosentino. Da inguaribile coltivatore di memoria rammento che dopo Acca Larentia Radio Popolare aprì i suoi microfoni ai fascisti. A livello locale invece è abbastanza noto che Radio Ciroma durante la prima guerra del Golfo fece partecipare alla trasmissione in studio Mimmo Barile e Arnaldo Golletti guadagnandosi anatemi e scomuniche in città e  sul territorio nazionale e, da allora, complice l’azione manciniana, ho perso il conto dei momenti pubblici di confronto cui ho e abbiamo partecipato senza ricevere grandi dissensi collettivi. E’ risaputo che, invece di recente, Valerio Morucci abbia deciso di parlare come discusso protagonista ad un dibattito di Casa Pound a Roma. 

Sono consapevole di far parte di una minoranza interna a quella che fu l’Autonomia italiana che ritiene oggi l’antifascismo militante una pericolosa guerra in trappola di cui beneficia il Potere. Ho aderito già tempo addietro alla tesi di Bifo espressa nel libro “Come si cura il nazi” in cui vive il pensiero di Reich (nulla di nazista, tranquilli) teso a cambiare  il pensiero di tanti nostri fratelli umani malati di aggressività paranoica. Una difficile attività che può dissipare o far piangere. E mi intristiscono le lacrime amare di Claudio Dionesalvi che nella sua generosità militante non può tollerare (pessimo verbo avrebbe detto Adriana Zarri) che io parli con persone mie coetanee che hanno idee differenti dalle mie. Approfitto per spiegare che sono passato con pie’ veloce davanti ai manifestanti per le difficoltà del servizio di polizia (constato che la tragedia di Genova non ha insegnato nulla ai tutori dell’ordine pubblico) ritenendo che fermandomi avrei aumentato la tensione e ignorando che qualcuno reclamasse un confronto con me in quel momento. Agli unici due compagni che mi hanno telefonato sconsigliandomi di partecipare al dibattito ho risposto che la mia dignità non mi permetteva di ascoltare il loro fraterno invito. 

Ho accettato la contestazione per rispetto della mia libertà, la stessa identica a quella di Cossiga quando pretendeva di non farmi scendere in piazza. Una sola parola non accetto: quella di “venduto”. Non sono un arbitro e non ho preso denaro per parlare alla vecchia stazione e mi fa pena qualche vecchio arnese a libro paga di municipi palazzinari o che porta la borsa ai partiti e che nella piazza antifascista cerca il riscatto dai suoi demoni interiori. 

Sono entrato in quella sala con l’animo turbato ma con la schiena dritta della coscienza. A chi mi ha dato la parola ho detto che ero là per portar un punto di vista diverso, com’era – spero – manifesto, e che anch’io ero responsabile della collera della piazza dei miei fratelli e figli di lotta tramandando un’epica da via Paal che a volte costringe ad inseguire quello che non si è potuto vivere al momento opportuno. Ho raccontato dei miei 7 anni quando mio padre – fondatore della giovanile socialista a Cosenza, vicino al muratore Paolo Cappello quando questi fu ucciso da una squadraccia fascista – mi disse un giorno nel bagno di casa solennemente: «Ricorda, qualunque idea ma fascista mai». Sono cresciuto agli insegnamenti laici di Mauro Leporace, militante di Giustizia e Libertà durante l’occupazione nazista di Roma, e anch’io ho praticato l’antifascismo militante pensando che fosse il viatico dei giusti. Poi ho capito che il fascismo appartiene agli italiani in mille forme, come il Papa e il Rinascimento. Alcuni sono fascisti inconsapevoli; i fascisti storici invece esercitano il loro pensiero ognuno a proprio modo e piacimento. 

A Dalle Chiaie ho detto che io credo nella soluzione sudafricana della guerra che combattemmo da punti opposti; chi sa parli e dica tutto. Il suo libro è un’occasione sprecata. La storia di un capo carismatico dove manca persino il pathos della sua comunità e in cui cerca di imporre la sua abilità strategica nelle guerra psicologica che ha combattuto con ogni mezzo. Ho evidenziato che loro terza posizione è finita nella bocca del capitalismo e ho riscontrato la loro impossibilità nel poter ragionare sui campi di sterminio e i garage Olimpo che hanno fatto macelleria degli orrori della loro parte. A beneficio di cronaca la sala era composta da una cinquantina di persone di varia età e generazione alla presa d’atto di una sconfitta e di un tempo odierno difficile e complesso come per tutti coloro che si battano per delle idee e non per il denaro. Con il rispetto che si deve a chi va in piazza e mette a rischio il suo corpo, per onestà intellettuale, se leggo con gli occhiali del passato la mobilitazione di venerdì a Cosenza, osservo che la presentazione del libro alla fine si è svolta lo stesso ricevendo molta più visibilità di quella che avrebbe avuto una borghesissima conversazione tra un avvocato, un reduce coerente e uno convertito e un giornalista situazionista postpunk. Non vedo purtroppo semi di pianta nuova. Ma è tempo di capire e forse mi sono ficcato in questa inattesa arena cercando di comprendere quello che sono stato io e quello che sono diventato sbattendo contro l’Io ipertrofico e poliedrico di quei fascisti che ancora oggi sostiengono di aver inseguito un sogno, che inevitabilmente a quelli della nostra parte appare come un incubo. Misteriosamente loro ci riconoscono il nostro sogno o forse fanno finta di riconoscerlo per assolversi meglio. Perché è il voler giudicare che ci sconfigge ed era bello quando i nemici li potevi riconoscere. Oggi mi sembra tutto più difficile. E a chi mi ha insultato rispondo: «Maledetti vi amerò lo stesso».

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