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SE le cose sono andate come sostiene la Procura distrettuale di Reggio Calabria, e in un paese civile occorre che lo dicano i giudici, Scajola Claudio, classe 1948, andrebbe privato della cittadinanza italiana. Perché se è vero che tutti possono sbagliare infrangendo il dettato del codice penale, in un paese civile, proprio per preservarne l’essenza di civiltà, occorrerebbe un limite oltre il quale negare la dignità di cittadino. Non alla persona, per carità, ma al cittadino sì, perché la circostanza che un ex ministro dell’Interno, che chissà quante volte ha sproloquiato di ’ndrangheta, abbia favorito la latitanza dorata di un ex deputato di Forza Italia (il suo stesso partito) condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, fa senso. Tanto. Tocca, appunto, la sensibilità di un popolo. 

Accuse tutte da dimostrare, certo, ma gravissime, ben oltre il titolo di reato contestatogli (“procurata inosservanza di pena”) e la pena per esso prevista dal codice. Persino gli anni di reclusione appaiono un dettaglio rispetto all’insulto alla nazione che commetterebbe un ex ministro dell’Interno (chi, cioè, si è occupato – dalla più alta postazione – di sicurezza del Paese e del contrasto ai fenomeni criminali) se favorisse in qualche modo uno riconosciuto collegato alla ’ndrangheta. E che Amedeo Matacena, armatore calabrese ed ex parlamentare della schiera berlusconiana, abbia avuto a che fare con le cosche lo ha detto la Cassazione (condannandolo in via definitiva a cinque anni e quattro mesi). In questo caso, in uno Stato di diritto, la cosa è quindi certa. Scajola non è nuovo alla ribalta delle cronache giudiziarie (la controversa vicenda della casa con vista sul Colosseo per citare la più recente). L’ex responsabile del Viminale su cui piovvero furibonde critiche sulla gestione dei fatti del G8 di Genova del 2001, è stato arrestato e portato in carcere a Roma da un nugolo di uomini della Dia: una scena da brivido, peraltro immortalata e videoripresa in tutte le salse (e anche su questo ci sarebbe da discutere). 
Ma l’accusa mossa a Scajola, a dispetto della mitezza delle parole che classificano il reato, è tanto grave da apparire come un’offesa irreparabile che sfonda persino il valico del pudore. Per i magistrati della Dda reggina e per gli uomini della Dia, l’ex ministro (ma chi ha ricoperto quella carica non ha forse l’obbligo ferreo di rimanere fedele allo Stato, molto più di ogni altro cittadino?) si è adoperato per far traslocare il latitante Matacena da Dubai (dove peraltro è oggi una persona libera perché laggiù, gli emiri, non conoscono il reato di concorso in associazione mafiosa) in Libano «al fine di fargli riconoscere il diritto di asilo politico». Ipotesi semplicemente raccapricciante. Nelle stesse ore in cui Scajola veniva prelevato in un albergo della capitale per essere portato in galera, in Lombardia il tintinnio di altre manette (per un giro di grandi mazzette nelle opere dell’Expo) accompagnava la riesumazione di “tangentopoli”. Ovviamente la riesumazione solo della parola, perché le tangenti, dicono le cronache, non sono mai morte in tutti questi anni. Manette, tra gli altri, a dirigenti dell’Expo, a un ex senatore di Forza Italia, a due protagonisti della prima parte di “Mani Pulite” (l’allora segretario amministrativo della Dc milanese Gianstefano Frigerio, e l’ex funzionario del Pci-Pds Primo Greganti, il “compagno G”. Nelle carte ci sono i nomi di politici di primissimo piano. Ma tant’è. Anche se questa volta non pare ci sia la ’ndrangheta (almeno dalle prime notizie), sempre di volgari mazzette e cupole politico-affaristiche si tratta. Vicende di un’Italia che non riesce a cambiare. Ma un ex ministro dell’Interno in cella con l’accusa di aver aiutato l’ex deputato del suo partito condannato per concorso con le cosche non fa solo scuotere la testa di disgusto, fa molta tristezza e fa venire la pelle d’oca.
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