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NELLE prossime ore sapremo chi candida il centrosinistra alla guida della Regione e, probabilmente, di qui a poco conosceremo anche lo sfidante espressione del centrodestra. Avremo, quindi, un quadro abbastanza chiaro su chi scegliere, quantomeno tra gli schieramenti maggiori. E, soprattutto, potremo concentrarci sui programmi. Già, il programma, una parolina magica che in sé di magico e di risolutivo ha ben poco ma che presuppone idee a cui agganciare la speranza che qualcosa cambi in una terra ormai devastata. Distrutta nel suo tessuto produttivo, piegata dalla crisi più generale e piagata da questioni prettamente calabresi quanto lo sono alcuni stereotipi che non riusciamo a scrollarci di dosso. Devastata sul piano sociale, con servizi di bassa qualità – con punte che declinano al pessimo – verso le fasce più deboli dei calabresi. Fortemente danneggiata sotto il profilo della classe politica: basta ripercorrere le cronache delle dinamiche che ci stanno portando alla designazione dei candidati per avere la sensazione netta che la politica è diventata scontro tra persone e non tra idee, accordo per il potere a prescindere dalle idee.

Idee e non ideologie: questa terra, nelle condizioni in cui si trova, ha urgente bisogno di idee, ancor prima dell’affermazione di questa o quella ideologia.

Oggi si celebrano, dopo mesi di chiacchiere, le primarie per il candidato del centrosinistra. Ma il centrosinistra non ha ancora vinto. Anzi, ha perso. Ha perso tempo prezioso che avrebbe potuto e dovuto dedicare a mettere insieme idee. Il centrodestra? La musica è la stessa.

Non è un gioco, e i tempi di riscatto sono contingentati. Ovvero, non c’è altro tempo da perdere. La campagna elettorale che i calabresi meritano deve parlare di idee, cioè di cose da fare. E subito. Coraggiose, se del caso, ma immediate.

Mentre i potenziali candidati alla guida della Regione (a destra e manca), nell’ultima settimana, mettevano a punto strategie e stringevano accordi per cercare di spuntarla sui rivali di schieramento (perché, è meglio ribadirlo, siamo ancora a questo, cioè ai preliminari di parte), le cronache ci hanno ricordato quali sono alcune delle emergenze che la Calabria sta vivendo: il braccio di ferro sui manager della sanità mentre i servizi continuano a venire meno (basti pensare all’agonia del polo oncologico di Catanzaro), la ‘ndrangheta (che quasi non fa più notizia), il lavoro che non c’è (e i precari che per avere promesse due mensilità arretrate hanno dovuto bloccare la viabilità a Cosenza, Catanzaro e Reggio).

E sarebbe semplice dire che la Calabria ormai è allo stremo, che è una vera e propria polveriera di bisogni sociali… Certo, lo è. Così come è facile bearsi delle belle notizie che solleticano l’orgoglio calabro, come la nomina di Eugenio Gaudio, originario di Cosenza, a rettore dell’Università La Sapienza di Roma, la più grande d’Europa. Notizia splendida, ovviamente, così come quella sul piazzamento di Riace al secondo posto in una classifica nazionale sull’accoglienza dei migranti.
La Calabria in chiaroscuro, insomma. E poi ieri, in piena vigilia di primarie e in pieno fermento per la designazione del candidato governatore del centrodestra, arriva una notizia di fronte alla quale ti chiedi se il futuro di questa regione lo si possa davvero attribuire a chi assumerà il timone della Regione. La notizia è la seguente: la Cgia di Mestre ha elaborato i dati sulle assenze per malattia dei lavoratori italiani nel 2012 e ha scoperto che i più malandati sono i calabresi. In media, dicono i dati, ciascun lavoratore dipendente si è ammalato ed è rimasto a casa 17,71 giorni (oltre il 30% dei certificati medici è stato presentato di lunedì). A livello territoriale la Calabria è in testa: a causa delle precarie condizioni di salute, «nel 2012 ogni lavoratore dipendente calabro è rimasto a casa mediamente 34,6 giorni. La media sale addirittura a 41,8 nel settore privato». In Veneto la media è di 15,5 giorni e in Trentino 15,3. 

Nonostante Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia, si è premurato di sottolineare che «i dati vanno letti con grande attenzione», che «sarebbe ingiusto e sbagliato strumentalizzare…» e che «al netto dei casi limite, le nostre imprese possono contare sull’affidabilità di impiegati e operai che sono considerati tra i migliori lavoratori al mondo», c’è da scommettere che l’immagine della Calabria ne uscirà a pezzi. Passeremo ancora una volta per i più vagabondi, per inguaribili lavativi. Certo, se uno si ammala si ammala. Ma perché i calabresi – statisticamente – si ammalano di più? Per giunta in Veneto, e in generale nella pianura padana, di sicuro c’è più umidità. E se fosse un po’ vero, insomma, che qui ci si pone meno scrupoli prima di “buttarsi malati”? In questa ipotesi, che è doveroso prendere in considerazione prima ancora che levare gli scudi contro l’ennesima statistica “contro” la Calabria, verrebbero fuori altre implicazioni che riguardano la consapevolezza di cosa sia un tessuto produttivo, di quanto valga dal punto di vista etico un posto di lavoro, di quale sia il dovere degli individui per il nostro stesso futuro e la nostra stessa terra. Ma questa questione, purtroppo, chiunque vinca le elezioni, difficilmente da solo riuscirà ad affrontarla.

twitter: @ro_valenti

 

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