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QUALCHE giorno fa, all’indomani della scelta di Matera come capitale europea della cultura per il 2019, abbiamo aperto un dibattito nelle pagine del Quotidiano ponendoci in buona sostanza un quesito: il traguardo raggiunto dalla città dei Sassi dimostra sicuramente che un altro Sud è possibile; la Calabria potrebbe essere, quindi, cosa diversa da quella che è oggi? C’è un futuro per questa terra? E, soprattutto, quale potrebbe essere la chiave di volta o, meglio, le chiavi per la svolta? 

Un dibattito avviato da Vito Teti che, in un lungo articolo, manifesta gioia per il risultato di Matera e amarezza per lo stato in cui è ridotta la Calabria, della quale offre una fotografia impietosa. Una terra, la nostra, che non è: avrebbe potuto essere una immensa città grazie alle risorse che ha («…fatta da mille paesaggi, fiumi, pietre, lingue, culture, cibi, acque, boschi, riti antichi e moderni», scrive Teti), eppure la “Città Calabria” non è stata mai immaginata, né, quindi, disegnata. Eppure, rileva Teti, Matera «ci segnala che un altro Sud è possibile e che la maledizione può essere ribaltata e che le profezie negative possono non avverarsi, sconfitte dalla forza dei sogni e delle utopie minimaliste (come scrive Luigi Zoja) e a portata di mano». 

Il sogno, per nulla irrealizzabile, di una “Città Calabria” passa dalla (ri)scoperta di una identità (scrive Teti: «Come direbbe Predrag Matvejevic’, l’identità del fare è stata sconfitta dall’identità dell’essere, che è degenerata in una polpetta identitaria… in cui si fondono lamentele e recriminazioni, autocompiacimenti e autodenigrazioni, autodistruzione e autoesaltazione…»). Sono seguiti altri interventi, da quello di Domenico Logozzo che, nello stesso giorno di Teti, ha scritto di quanto Calabria e Basilicata siano così vicine (geograficamente) ma tanto, tanto lontane sotto altre angolazioni. E poi un’idea possibile di Calabria prospettata da un altro docente universitario, Battista Sangineto, che partendo dal valore della bellezza (oggi, qui, mortificato) disegna la speranza della regione aggrappata a due pilastri: cultura e agricoltura. 

Il dibattito si è andato via via arricchendo, da una dissertazione di due professori dell’Università di Catanzaro, Vittorio Daniele e Paolo Malanima, sull’origine del divario Nord-Sud, a un intervento di un architetto di Cosenza, Daniela Francini, secondo la quale alla Calabria non basta lamentarsi. Oggi scrive il collega Michele Albanese e altri contributi usciranno nei prossimi giorni. Già a questo punto, però, un altro interrogativo emerge con forza: ma davvero è tutto fermo in Calabria? 

Ovviamente no, e d’altra parte tutti gli interventi lo lasciano trasparire vuoi come potenzialità, vuoi come auspici basati, in ogni caso, non solo sull’immaginazione. Basta spulciare nelle cronache di questa regione per scoprire che tra atteggiamenti di «autodistruzione e autoesaltazione», che pure non si fa fatica a leggere nelle nostre giornate da calabresi, ci sono segnali diversi. Defilati, fuori dalla ricerca del clamore autocelebrativo e, spesso, fine a se stesso. Segnali di un gran lavorio da formiche, che, si sa, sono cosa ben diversa dalle cicale e anche dagli struzzi. 

Qualche esempio “piccolo” (si fa per dire): alla 51/esima edizione di Smau, a Milano, ci sono in queste ore 11 imprese calabresi: otto fanno parte delle 12 altamente innovative nate in Calabria da spin-off della ricerca universitaria. Iniziative nate grazie al TalentLab – spin-off, il percorso di pre-incubazione dedicato ai ricercatori e sviluppato da CalabriaInnova, il Pisr della Regione Calabria. Altre tre sono startup che hanno superato la prima fase del percorso Talent-Lab-startup, dedicato ai laureati. Ovvero: i talenti in Calabria ci sono davvero. E fanno. Anche se non hanno – ma non lo cercano, giustamente – la visibilità dei grandi annunci. Ancora: al salone del Gusto di Torino per la prima volta la Calabria è presente in maniera significativa: molti produttori e una quarantina di eventi organizzati da Slow Food Calabria. Dai grani antichi alla sperimentazione di formaggi affinati nelle grotte di Cleto, dal cibo prodotto dalle cooperative sociali a quello che proviene dai terreni confiscati alla mafia, dai giovani chef e vignaioli che stanno cambiando la nostra gastronomia alle birre artigianali che nascono in Calabria. Il confronto sull’altra Calabria possibile deve passare soprattutto da questa miriade di piccoli protagonisti silenziosi. Un silenzio da rompere non per inutili celebrazioni. Noi siamo qua.

twitter: @ro_valenti

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