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IL PRIMO camion lo evitiamo per un soffio, una brusca frenata in curva ci fa sfilare via senza graffi. Tra i passeggeri del pullman Cosenza-Roma sale l’irritazione. La deviazione tra Mormanno e Laino Borgo è appena all’inizio ma abbiamo già avuto un assaggio di quello che ci aspetta. Il crollo del viadotto, costato la vita a un giovane operaio, costringe da settimane gli automobilisti della Salerno-Reggio Calabria a inerpicarsi su stradine rimaste come ai tempi dei Borbone. L’autobus non riesce a procedere in modo spedito. Ogni dieci metri si ferma, stretto dalle auto che spingono in senso contrario. La fila dei vacanzieri per le feste di Pasqua è consistente. Sul percorso alternativo si procede a singhiozzo. Veniamo fermati più volte, non c’è spazio per passare. E la precedenza viene data alle auto. L’autista ha un gesto di stizza: “Dobbiamo andare a Roma”, grigna fra i denti al terzo addetto dell’autostrada che gli punta la paletta rossa.

Tre soste forzate e una deviazione nella deviazione sono troppe anche per chi si è svegliato all’alba con la gioia di partire per le ferie. Sul bus i telefonini diventato roventi. C’è chi deve essere a Napoli per prendere la Frecciarossa per Milano, chi ha un aereo che l’aspetta a Roma. I viaggiatori sono perlopiù nonni, genitori di figli lontani che la Calabria distratta e insipiente non è riuscita a trattenere nel grembo amato. “Qui ci accappottiamo tutti”, pigola una donna con la faccia truce e lo sguardo perso nello strapiombo dei tornanti. Il marito annuisce con la testa senza rimuovere lo sguardo dalla mulattiera.

Mentre siamo fermi noi, sfilano le auto di chi scende dal Nord, con il cuore colmo di aspettative, subito annacquate da questa delusione. Sono facce stanche, auto piene di bagagli e pacchi regalo, targhe di città nordiche, simbolo di una vita migliore costruita lontana dai luoghi dell’anima, con sacrifici e nostalgia. Il pullman si muove a scatti, a scossoni. Non si riesce a fare venti metri senza fermarsi e calcolare i centimetri per non strusciare. Nelle curve, l’autista tormenta il clacson, un suono cupo rimbomba per la vallata assonnata, sgomenta davanti all’invasione del serpentone di lamiera. Le barriere della strada risalgono almeno agli anni Settanta, sono basse, pericolose, non riuscirebbero a reggere l’urto di una bici. La strada è brutta, angusta, angosciante. Per alleviare i sensi di colpa, l’Anas sta rifacendo l’asfalto, segno che la tortura della deviazione non sarà breve. A bordo sale la tensione. Abbiamo più di un’ora di ritardo (a Napoli saranno due). I venti minuti in più pronosticati dopo la chiusura del viadotto, sono irreali. Qualche coincidenza è già andata a farsi maledire. Telefonate febbrili, imprecazioni. Chi giura che non ci metterà più piede, chi rimprovera alla moglie di aver scartato l’idea dell’aereo.

Quando tocca a noi muoverci, incrociamo una fila di auto, con scene di altri tempi: passeggeri fuori dall’abitacolo, un bivacco come nelle tradizioni peggiori della Salerno-Reggio Calabria. C’è molta rabbia, un gesticolare nervoso: ci sono cascati a Pasqua, fra qualche mese difficile aspettarsi la replica. Le imprecazioni si sprecano. Non si salva nessuno. I telefonini non si zittiscono per un attimo. “Colpa nostra, siamo delle pecore, noi calabresi non ci ribelliamo mai”, filosofeggia un signore con i capelli lunghi e tutti bianchi. Gli fa eco una signora grassoccia, distrutta dai tentativi di spiegazioni dati alla figlia che l’aspetta in Germania. “Meglio l’auto, a quest’ora ‘avevo’ arrivata”, dice convinta una donna con gli occhiali che non riesce a star ferma. La sua vicina di posto la guarda con occhi pieni di dolcezza infinita: auto o bus che cambia in questa trappola micidiale?

E poi stai a guardare il verbo ausiliare sbagliato: magari fosse l’unica cosa fuori posto di questa mattinata calabrese. 

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