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LA manifestazione contro la criminalità a cui hanno dato vita i catanzaresi venerdì, su invito di Libera, è un segnale incoraggiante. Scendere in piazza per dire no ad attentati, a intimidazioni e minacce a imprenditori e amministratori, ma anche al proliferare di furti e rapine, è un segno non solo di consapevolezza, ma anche di grande civiltà. Non è solo la dimostrazione che ci può essere qualche leva più forte della paura e della rassegnazione, ma anche l’esempio plastico di una presa di coscienza: cioè, quand’anche non vengo colpito direttamente dalla criminalità, ogni qualvolta essa agisce danneggia anche “noi”. Non è cosa da poco. Perché, intanto, questa mobilitazione della gente non può essere archiviata come una manifestazione fatta in una città in cui “c’è poca ’ndrangheta”. E il problema è proprio questo. In Calabria sarebbe bene iniziare a parlare di criminalità e non solo di ’ndrangheta, e non certo per evitare di dare nome e cognome alle cosche che sono vive e vegete, ammazzano, opprimono l’economia, tentano di condizionare la pubblica amministrazione (e in diversi casi ci riescono), pensano come mettere a tacere i giornalisti scomodi così come gli amministratori che non cedono (ci sono pure questi, gli uni e gli altri). 

LA MANIFESTAZIONE A CATANZARO: ARTICOLO E VIDEO

Accanto ai signori del racket, della droga e del riciclaggio (solo per menzionare i filoni più “produttivi” della mafia), in Calabria la criminalità ha altri volti. E non solo quelli dei ladri, dei rapinatori e degli scippatori slegati dalla ’ndrangheta. In Calabria, così come in tutt’Italia, ci sono corrotti e corruttori, eserciti di “mazzettari” e usurai liberi professionisti che, lontani dal palcoscenico occupato dalla ’ndrangheta, a questa terra fanno comunque pesanti e costanti danni. La sensibilità pubblica ovviamente è ferita soprattutto dalle malefatte delle cosche (che, oltretutto, occupano di più gli scenari giudiziari ma anche quelli dei mass media), ma questo non vuol dire che non serva in questa regione una presa di coscienza più completa e seria.

Nelle aree della regione in cui storicamente si pensa ci sia meno ’ndrangheta, ci sono intrecci affaristici (spesso di tenore pubblico-privato) che oltre a dare la nausea, in quanto a conseguenze nefaste sullo sviluppo stesso del territorio non hanno molto da “invidiare” alle scorribande dei clan. Con o senza armi, sempre di criminali si tratta, semplicemente perché violano il codice penale e, su un piano extragiudiziario, danneggiano la collettività. 

Viviamo tempi difficili, anche perché, venuta un po’ meno la lucidità collettiva, ci facciamo contagiare dal sensazionalismo (peraltro soggetto a mode passeggere) e quindi – nell’era di una male intesa spending review – saremmo capaci di osannare un amministratore che al posto dell’auto blu usa un motorino (circostanza che molto marginalmente può incidere su un giudizio serio sulla sua validità). Se poi usasse un monopattino… apriti cielo! diventerebbe un eroe, a prescindere.
Come ci hanno ridotti decenni di porcherie. Siamo tanto “confusi” che oggi saremmo capaci di dare addosso a un sindaco per una cena istituzionale e di beatificarne un altro che non spende un euro del Comune per cene di lavoro (anche se, magari, baratta il futuro della sua città con gli affaristi, che, invece, non passano mai di moda e sono sempre in servizio). 

In questo stato di disorientamento generale, allora, restiamo alla superficie delle cose. Quanto sarebbe utile prendere coscienza piena che i criminali sono molti di più di quelli – ignobili – che sparano e che tanti piccoli segnali possiamo cominciare a mandarli nel nostro piccolo vissuto di tutti i giorni. Tanti piccoli segnali di coraggio e, soprattutto, di speranza.

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