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ANDANDO per le strade di Reggio – da quelle più eleganti del centro cittadino fino a quelle più tristi e semi intonacate di una periferia che fa tanto Tunisia o Marocco – si ha una precisa sensazione. Ovvero che a comandare nella città celebre per il suo Museo Archeologico casa dei due Bronzi di Riace o per lo storico Lungomare non sia né la fantomatica borghesia cittadina né, tantomeno, la politica, qui rappresentata da un sindaco volonteroso che, al pari dei suoi colleghi del Sud, non può certo sfornare miracoli. La certezza per un cronista forestiero è che, qui, i padroni abbiano un solo cognome, De Stefano. Il clan è insediato nella zona residenziale di Archi dove, come ha abilmente dimostrato Vittorio Romano della Rai, si annida in splendide ville a pochi passi dal mare circondate da recinti inavvicinabili e blindate fortificazioni murarie degne della corona inglese.

In qualche modo perverso qui sono loro a incarnare una sorta di casata reale nata e consolidata nel sangue. E la gente di Reggio questi reali li tratta con rispetto e con considerazione. La loro oscura reputazione non è stata minimamente intaccata dalle tante inchieste che pure hanno inferto al clan colpi durissimi con gli arresti di Giuseppe De Stefano e di altri pezzi da novanta della famiglia.

Da sempre sento parlare di cultura della mafia, ma soltanto qui, a Reggio, riesco a toccare con mano che cosa sia. La cultura della mafia è quando i pensionati che scorrazzano in via Nazionale, ad Archi, accettano di dialogare col cronista lamentando: “qui siamo abbandonati. I miei figli non lavorano.” E quando tu gli chiedi dei De Stefano, la risposta è Cultura: “brave persone, gentili, educati”. Molti ti liquidano con frasi che sono ormai trito cliché: “Vivo ad Archi da 60 anni ma non li ho mai conosciuti. Comunque non danno fastidio. Anzi, se possono, aiutano”.

Gente di 60-70 anni, che abita a pochi metri da loro che giura che la famiglia “reale” non si è mai palesata, è invisibile. “Mai visti, mai conosciuti”. Solo Pasquale, bel viso segnato del Sud sormontato da un’impalcatura di occhiali rossa, è sincero: “Guardi, la figlia era qui, a pochi passi da lei… fanno la spesa tutti i giorni”.

Proprio come una famiglia reale espletano le loro “operazioni simpatia” concedendosi al popolo dal quale provengono… d’altronde sono loro che “hanno messo le scarpe a mezza Reggio”, come ci ricorda il boss Giuseppe nell’interrogatorio con il Pm Lombardo, uno che non dà loro tregua. Fa parte del marketing del terrore. Essere invisibili è un paradossale passaggio integrante dell’onnipresenza. Raccogliere consenso attraverso la paura, le estorsioni, l’occupazione territoriale, ma anche esserci, risolvere i problemi che la gente affronta quotidianamente, come nel settore della sanità. C’è chi si è rivolto a loro per velocizzare anche una banale ecografia di una signora… e Dio sa quanto, in una famiglia italiana, conti il consenso delle donne.

Insomma, sono una dinastia reale ma anche una vera e propria agenzia di problem solving. Velocizzano tutti i tipi di pratiche, lecite e illecite, entrando in diretta competizione con lo Stato e, ovviamente, in modo incredibilmente più efficiente. C’è stima, invidia, probabilmente odio nei loro riguardi, ma nessuno li mai prende di mira, men che meno nessuno si sogna di discuterne l’assoluta autorità.

Ad Archi l’ottimismo renziano non arriva… Qualcuno ammette davanti alla telecamera che con il sindaco Falcomatà qualcosa è effettivamente migliorato, per esempio la raccolta dei rifiuti. Ma su tutto pesa come un macigno la sensazione che Reggio e la Calabria siano una zona franca della ‘ndrangheta e che, nonostante gli sforzi immani della Procura e quelli più pavidi della politica, la battaglia di questi signori sia vinta da tempo perché è un rispetto regolamentato dalle armi tenute in tasca e cementato dai servizi che offrono. Qualcuno li definisce “mafia borghese”, come se la cosa rendesse più soft il concetto di mafia, ammantandolo di una ingenua normalità ormai radicata nel tessuto sociale. Ma la sensazione è che si abbia a che fare con una monarchia mafiosa dai molteplici interessi ramificati in Italia (sulla loro presenza a Milano torneremo), ma anche all’estero. I De Stefano sono a capo di una sorta di “commonwealth” della ’ndrangheta dai tentacoli pressoché planetari. Ora che Paolo Rosario Caponera in De Stefano, è tornato fuori, è mutato l’equilibrio degli interessi economici della famiglia? Il tempo e la magistratura ci dirà se è davvero così.

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