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Scemano in maniera esponenziale le curve di esposizione dell’io resto a casa dal tinello con sfondo di divani a fiori, cani e gattini. Decadono le feste dai balconi, si ritirano le bandierine, sparisce l’inno nazionale all’ora del vespro e oltre quattro milioni di italiani restano incollati alla diretta tv della preghiera del rosario all’ora che fu del carosello. Le lunghe giornate casalinghe assumono il loro effettivo contorno. Un diario di Anna Frank ai tempi della segregazione totalitaria da virus.

Chiusi in casa, chi può replica a distanza le attività lavorative non più possibili sui luoghi di lavoro, sperimentando per la prima volta tempi e modalità di produzione di massa una volta impensabili. Milioni di impiegati, di insegnanti, di studenti affollano la rete che ansima, sbuffa, fa le bizze. Un epocale boom di connessioni, dai servizi in streaming ai milioni di videogiocatori multiplayer in azione ha messo in crisi la più grande infrastruttura del pianeta. YouTube e Netflix annunciano la riduzione della qualità dello streaming per non intasare la rete. I server, responsabili del più grande inquinamento energetico del pianeta, sperimentano lo stress test. Basta sapere che “un’ora di video da uno smartphone equivale al consumo annuale di un frigorifero e l’ invio di una e-mail con un allegato consuma quanto una lampadina accesa per una intera giornata”. Ci sarà un limite anche per la vita virtuale. Speriamo.

Chiusi in casa e sottoposti alla dose quotidiana di narrazione ansiogena a reti televisive unificate con picco alle diciotto. Tacere ed obbedire. Governanti a qualsiasi livello, analisti, scienziati, i soliti figuranti di giro, uomini dello spettacolo praticano senza sosta e ad un livello sempre maggiore la colpevolizzazione dei comportamenti individuali, o meglio, di quello che è rimasto dell’ora d’aria. Nessuna interruzione della democrazia (!), dichiarano solenni.

È lo stato di necessità. Restate a casa. Torneremo ad abbracciarci. Da nessuno di questi inascoltabili signori si può sperare che arrivi una seppur flebile critica su come era diventato il mondo ben prima che un invisibile essere inceppasse un meccanismo folle. La certezza capitalista di cui si nutrono è stata messa in discussione in maniera radicale non dai miliardi di diseredati sparsi per il globo, ma da un virus naturale che ha trovato via facile nel mondo veloce, frenetico e interconnesso del dominio mercantile. La via della seta ritorna in altre forme.

E così viene svelata la reale fragilità di un sistema criminale basato sulla sopraffazione e sul profitto ad ogni costo e i cui effetti già si annunciano. Fallimenti a catena e montagne di disoccupati. Fame e paura nei milioni di poveri che non sapranno più come fare per sopravvivere. Non basteranno i reparti antisommossa davanti ai supermercati. Un oceano non si può contenere in un bicchiere.

I serial killer di questo mondo si muovono in ordine sparso e nella vecchia Europa si litiga sulle risorse da destinare agli Stati maggiormente colpiti dalla pandemia. Nessuna soluzione può arrivare da questi burocrati del capitalismo globale. Sappiamo sin d’ora che ogni allargamento della borsa sarà pagato in futuro con gli interessi. E la logica con cui si affronta il problema non potrà essere diversa da quella che nel tempo ha affamato i popoli, ha distrutto il welfare, ha devastato e inquinato, ha creato le condizioni per guerre e migrazioni.

Le condizioni della sanità nel nostro Paese riflettono esattamente questa dinamica. Chi parla di splendore del nostro Servizio Sanitario Nazionale è un bugiardo consapevole di esserlo. E gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Era il lontano 1992 quando se ne iniziò lo smantellamento, trasformando le USL e i grandi ospedali in aziende e togliendole dal controllo comunale. E poi, a seguire, il boom delle strutture private alimentato dalle mille collusioni con la politica e le università, l’eliminazione dei distretti sanitari di base, il taglio del fondo sanitario nazionale e la completa regionalizzazione a partire dal 2001. E, con la scusa del debito pubblico, miliardi e miliardi di ulteriori tagli.

E oggi le finte anime pie si meravigliano che migliaia di operatori sanitari lavorano senza uno straccio di protezione seria, contagiati senza pietà e portatori loro stesso di contagio. Una tragedia immane che ovviamente non ha colpevoli. Meglio che parliamo di eroi in questo paese dei balocchi. D’altronde la narrazione ipocrita ha accompagnato per decenni le volontà dei dominanti. Gli economisti liberal e conservatori, le destre e le sinistre unite hanno esaltato senza indugi la retorica del rapporto deficit/pil e dei sacrifici perenni. Tutto è stato funzionale al racconto. Il potere taumaturgico delle privatizzazioni innanzitutto e via con gli insegnanti incapaci, i medici incompetenti, gli impiegati fannulloni, gli assenteisti da licenziare in 48 ore. Una finta morale con le spalle coperte da solerti magistrati scandagliati ad indagare il marcio. Imbonitori e circensi utili a scavare divario sociale e fosse comuni per i più poveri.

Intanto autocertifichiamo i nostri movimenti. Niente passeggiate all’aria aperta, nemmeno in solitudine. Niente di niente. Solo gli essenziali al lavoro. Per questi, il contagio è parte del rischio patriottico. Si esaltano le funzioni di applicazioni utili a seguire i nostri movimenti con timide e ridicole dissertazioni sulla privacy violata. Il libro dell’orrore si è nutrito da tempo di algoritmi che ci pedinano in ogni momento della nostra vita. I nostri dati e i nostri movimenti sono a disposizione come le nostre emozioni. Chiedetelo a Zuckerberg e soci.

Gli sceriffi sparsi sul territorio, bandana sul volto e tono minaccioso, fanno quasi tenerezza in confronto al capitalismo della sorveglianza.

Ci dicono che durerà molto. Settimane, mesi e comunque dopo nulla sarà come prima. Siamo in guerra, ripetono come un mantra. Non sappiamo. L’importante che, a guerra finita, sapremo bene chi abbracciare e chi non abbracciare mai più e per conforto ascolteremo più volte il vecchietto ripreso a camminare da solo nelle strade vuote di un comune campano, che ad alta voce tuonava, a monito di tutti, che la libertà vale più della morte.
Antonio Panettieri

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