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Il luogo del duplice omicidio compiuto da Mario Bressi

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Se dovessimo scrivere un’epica moderna chiederemmo ai vicari di Enea e Orfeo, discesi nell’Ade, di interrogare sull’amore, seduti tutti in cerchio, i Mario Bressi assassini di figli, mogli e spesso di se stessi. Senza giudizio, anzi colmi di dolore solenne, una domanda sull’amore a queste anime andrà fatta. Potrà darsi che resteranno in silenzio a capo chino, senza una parola, senza capire. Potrà darsi invece che avranno compreso, precipitando all’infinito nel supplizio interiore: non era quello l’amore che pure dicevano e sentivano di provare (mettendolo anche e così spesso in bella vista alla finestra dei social) e che la sofferenza per una separazione nulla aveva a che fare con quei cuscini e quelle mani di un padre che soffocano per sempre sorrisi e corse affannate, tavole chiassose, passeggiate in montagna, il ritorno a scuola tra gli amici, la vita.

Che cos’è l’amore dovremmo chiederlo anche a molta stampa però, ostinata su locuzioni retoriche in merito al dolore del bravo padre di famiglia. Sofferenza che in qualche misura sembra giustificare, comprendere il gesto. Pensiamo a pietosi titoli di giornale come “Il dramma dei padri separati”, dramma messo in relazione alla tragedia di Lecco, quando relazione non ve n’è alcuna. Pensiamo anche a serafiche conclusioni stile “a causare la tragedia la difficile separazione tra il padre e la madre”, come ha scritto la più importante agenzia di stampa italiana, l’Ansa, in un suo flash su Twitter. Chi soffre per amore non uccide, non strangola i figli. Soffre da morire, ma se ama davvero lascia andare.

E Bressi era soltanto un signore ammalato, non un marito, non un padre. Non uno che amava. Non si può rendere umano quel gesto con un titolo, una frase, una spiegazione, perché di umano non ha nulla. Striscia però ancora con forza per strada e nelle nostre belle case il serpente patriarcale, e sembra uno di quegli orrendi mostri circolanti delle rappresentazioni teatrali orientali. Il nostro è ancora un mondo dove si fa fatica a spiegare (anche a se stessi, lo si ammetta) che la donna ha pari diritti dell’uomo. Compreso, forse per primo, il diritto sacrosanto di non amarti più, di scegliere una strada diversa dalla tua, di salutarti alla porta, dirti arrivederci in un altro scenario, altrettanto importante, specie quando si hanno dei figli. In questo terribile habitat l’equazione può materializzarsi facile facile a chiunque: lei voleva lasciarlo, povero padre, soffriva troppo, si può anche capire.

Entrando in punta di piedi sul profilo di Mario Bressi, leggiamo dunque tra i commenti alle tante foto dei bambini, che il padre pubblicava in abbondanza, anche modelli di condono di questo tipo: “Un uomo innamorato, vistosi lasciato gli è crollato il mondo addosso. Se la moglie fosse stata con lui per il bene dei figli almeno fino alla maggiore età, questo non accadeva”. E ancora: “Penso che questo sia un gesto nato dalla disperazione”, “Stava vivendo un dramma”, “Chissà quanto soffriva per fare una cosa del genere”. Tutto questo uccide due volte i gemellini di Lecco, e uccide la madre già condannata al martirio a vita, perché diventa lei la colpevole. Ci accorgiamo con chiarezza quanto siamo ancora lontani dalla capacità di liberarci da queste oscurità, tutte culturali. Ci meravigliamo del burka, per esempio, sbandierando la nostra perfetta “civiltà” rispetto all’Islam e alla condizione della donna, senza accorgerci che spesso le cose stanno alla rovescia se in casi come questi usiamo o scriviamo parole indulgenti nei confronti della mostruosità, perché nessun addio può giustificare quel gesto. L’amore non è questo, è altro. L’amore è cura, anche nelle pieghe di una enorme e sanguinante ferita di una separazione.

Siamo sovente ridicoli, ottusi quando insistiamo sul fatto che noi occidentali saremmo i soli detentori dei veri sentimenti. Ci sono versi da capogiro nella poesia degli altri, in merito. In “Cambio d’abito”, un illuminante scritto pubblicato sul sito di Acis, Australasian Center for Italian Studies, ripreso dalla rivista “Africa e Mediterraneo”, Kaha Mohamed Aden – delicata scrittrice somala laureata in Economia a Pavia, facendo il percorso all’indietro sulla strada delle motivazioni culturali e politiche della scelta delle donne del suo paese di coprirsi per intero, quando un tempo era di moda un incantevole vestito cosiddetto guntiino, che “quando allentato, riesce a fare intravedere” – oltre che Salvatore Fiume e al suo sbalorditivo dipinto “Somale al vento”, cita tutta la finezza di un amore non corrisposto nei suoni di inizio ‘900 (la poesia a quel tempo era soltanto orale, più tardi sarebbe stata messa su carta) di un celebre poeta innamorato di una ragazza, Hodan, per la quale “declamava il suo sentimento nella forma più alta della comunicazione”, scrive la Aden, al punto che “di lui si dice sia morto di dolore, perché purtroppo Hodan, la sua amata, non è mai diventata la sua compagna”: Hadday ili wax qabanayso oo lagu/qaboobaayo/Oo qurux la daawado kol uun aadmi ku/qancaayo/Aniguba Khadraan soo arkiyo qaararkii/Hodane, ovvero se la sola contemplazione potesse appagare la natura umana, allora mi basterebbe aver visto Khadra, con lo sguardo aver afferrato particolari di Hodan.

Un amore non corrisposto eppure tanto pieno nel suo vuoto così perfetto, vissuto dunque, contemplato. E quanto poi è rispettata, amata anche nella sua scelta, Hodan. Quando invece molti nostri uomini spesso hanno preteso, costretto, ucciso infine le donne che non gli hanno corrisposto, o che hanno smesso di farlo. Un prototipo ben collaudato. E documentato. Se ci fermiamo ai dati del nostro paese, dall’inizio del 2020 sono già 34 le donne assassinate in Italia: si chiamano, sentiamo il dovere di chiamarle, in ordine di morte Carla, Concetta, Fausta, Maria Stefania, Ambra, Francesca, Rosalia, Fatima, Rosalia, Monica, Speranza, Laureta, Anna, Zdenka, Larisa, Barbara, Bruna, Rossella, Lorena, Gina Lorenza, Viviana, Maria, Alessandra, Marisa, Zsuzsanna, Maria, Mihaela, Gerarda, Rubina, Giuseppina, Cristina, Paola, Morena e per ultima (quando scriviamo) la piccola Elena Bressi, vittima del padre che non ha accettato il diritto della madre di costruire un altro percorso.

Padri che uccidono, dunque, anche i figli. Come in una sorta di Edipo al contrario, o come nuovi Medea che uccidono per vendetta dissolvendo tutto nella morte. Come i mafiosi che sterminano i familiari del nemico, per fare attorno a lui e alla sua storia terra bruciata. Una mafia di dentro, ecco, che vuole rivendicare la sovranità maschile nella famiglia, secondo quella immagine ben espressa da Paolo Crepet di “feudalesimo affettivo”. Lo ripete da anni, e bene, Claudio Mencacci, presidente della Società Italiana di Neuropsicofarmacologia e past president della Società Italiana di Psichiatria: un attacco al futuro della vita, la vendetta più crudele. Distruggo quel che hai di più caro al mondo, per creare il deserto permanente. Uno scenario premeditato, quasi mai un fulmine a ciel sereno. Sono stragi, come le stragi mafiose. Non mi ami più? Ti faccio esplodere come a Capaci, come in via D’Amelio.

Uccidere però non è soltanto l’estremo atto di togliere la vita, si può anche fare non prendendosi cura. Il padre di Elena e Diego era prodigo nel pubblicare sui social le fotografie dei gemelli dodicenni, una cura maniacale nell’esporli in pubblico che nulla ha a che vedere con la cura d’amore, di rispetto e silenzio che dobbiamo ai nostri figli. Dice bene il Dalai Lama: è un’epoca in cui tutto viene messo in vista sulla finestra, per occultare il vuoto della stanza. Un vuoto che uccide i figli sofferenti del mondo, lasciati al loro destino, è quello dell’indifferenza. E quei padri indifferenti, muti, dunque colpevoli, omissivi, siamo noi. Il punto è sempre lo stesso: se non amiamo l’umanità, non potremo amare i suoi figli. Che tutti i beni terrestri/ti diano gioia,/che l’ombre e il chiaro/che le quattro stagioni/ti diano gioia,/ma che soprattutto, l’uomo ti dia gioia. Sono versi del poeta turco Nazim Hikmet. Dovremmo ripeterli insieme con il Padre nostro, ogni giorno. Prima di pranzo, prima di cena, attorno a un tavolo.

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