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Agazio Loiero

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Rispondo oggi con un po’ di ritardo, di cui mi scuso, ad alcuni commenti suscitati da un mio articolo sui problemi della Calabria. Ringrazio prima di tutto il direttore di questo giornale per le parole che ha usato nei miei confronti e per lo spazio che su questo giornale mi offre. Per l’utilità del confronto mi soffermerò in sostanza solo su quello che hanno scritto – li cito in ordine d’uscita – Emiliano Morrone e Paride Leporace (LEGGI). Con il primo mi trovo d’accordo in particolare sul fatto che purtroppo la nostra regione “a Roma non conta più”. Si tratta di un problema ragguardevole.

LEGGI IL PRECEDENTE INTERVENTO DI lOIERO

Ci sono stati tempi in cui la regione a Roma contava. Mi riferisco in particolare ai tempi di Mancini e Misasi, giusto per ricordare i due maggiori protagonisti politici del territorio, rimasti per anni al governo del paese, ma mi riferisco anche ad un successivo periodo storico, quello a cavallo tra due secoli, durante il quale fu decisa l’elezione diretta, fissata in Costituzione, dei Presidenti di regione. E’ quello lo spartiacque istituzionale che conferisce, almeno sulla carta, al capo dell’esecutivo regionale un potere innegabile, di cui, per certi versi, neanche il presidente del Consiglio dispone.

Il secondo scritto, come ho prima ricordato, è di Paride Leporace, un giornalista senza peli sulla lingua, il quale nel complesso non mi tratta male. Anzi. Mi rimprovera, per il ruolo che ho ricoperto, una mancanza di autocritica. Tre sono i rilievi specifici che mi muove. Primo. La mancata circolazione nelle sale cinematografiche del cortometraggio su Mimmo Lucano, girato da Wim Wenders intitolato “Il Volo”, cofinanziato dalla regione ai tempi della mia presidenza. In verità lo abbiamo visto e apprezzato in alcune sale importanti, a cominciare dalla casa del cinema a Roma, dove c’erano molti uomini di cultura. In buona parte calabresi. Tutti contenti di assistere ad una trama capace di risvegliare nel fondo di una memoria sconosciuta echi di una storia millenaria.

Ritornando alla mancata distribuzione de “Il Volo”, mi fu all’epoca spiegato che è difficile mettere in circuito nelle sale cinematografiche un cortometraggio che dura 31 minuti. Ciò non di meno ammetto che ho sbagliato a non farlo circolare almeno nelle sale cinematografiche della Calabria. In tale atteggiamento rinunciatario mi sono rivelato doppiamente incapace perché di sicuro ne avrei tratto un grande vantaggio d’immagine.

Il secondo rimprovero è quello di avere accettato nel 2005, dopo una mia iniziale, forte resistenza, di mettere in lista, su pressione del partito romano cui facevo all’epoca riferimento, una persona che successivamente – quindi non nel momento in cui si candidava – è stata accusata di un reato grave.

Respingo in forma perentoria il terzo rilievo che Leporace mi muove. Afferma infatti che Doris Lo Moro, all’epoca assessore alla sanità, fu messa dal sottoscritto fuori dalla giunta perché autrice di un piano sanitario riformatore che non piaceva a molti settori del partito democratico. Circolano su questo evento versioni diverse. Tempo fa l’attuale presidente della Commissione nazionale antimafia, il senatore Morra, ha detto per due domeniche di seguito durante la trasmissione televisiva “Non è l’arena”, che la Lo Moro fu fatta fuori dal sottoscritto perché voleva impedire il pagamento di una retta ad un gestore privato della sanità. Neanche questa versione risponde a verità, come sono in grado eventualmente di dimostrare. Doris Lo Moro è uscita dalla giunta perché, malgrado il suo impegno, non era riuscita a tenere sotto controllo i conti delle aziende sanitarie.

Anche se sono convinto che fatti così lontani nel tempo non interessano ai calabresi, voglio soffermarmi sul mio rapporto politico con l’ex sindaco di Lametia Terme. Appena eletto, l’ho cercata e le ho offerto la possibilità di diventare assessore alla sanità, contro il parere di quasi tutti i maggiorenti regionali del partito dei Ds. Per una questione di discrezione non intendo rivelare quello che ho dovuto fare, direttamente e indirettamente, per convincerla ad assumere quell’incarico.

Nella gestione della delega ha goduto, come tutti i suoi colleghi di giunta, di una libertà assoluta nel contesto unitario della giunta e nel rispetto delle prerogative istituzionali spettanti al presidente. Il conflitto nacque dopo oltre un paio di anni di convivenza politica, quando lei dichiarò a verbale e sulla stampa che i bilanci delle aziende sanitarie calabresi non presentavano disavanzo. L’esecutivo invece, compreso il sottoscritto, era in grande parte convinto che la realtà fosse diversa. Il contrasto ebbe luogo dunque su questo tema scabroso e delicato e non su altro.

Tutti gli assessori sapevano che il mio spauracchio era il debito in sanità, specie se a Roma governava un esecutivo che comprendeva la Lega, particolarmente intransigente con le regioni del Sud e in modo speciale con la Calabria degli stereotipi. Voglio ricordare a tal proposito un episodio illuminante. A dicembre del 2005, quasi alla fine del mio primo anno di governo nell’abituale classifica stilata da “Il Sole 24 ore”, balzai, come presidente della Calabria, sorprendentemente al primo posto. Un fatto mai avvenuto né prima, né dopo. Nell’anno successivo, complici due avvisi di garanzia recapitati prima al vicepresidente della giunta e successivamente al sottoscritto e complice anche l’arresto del capogruppo regionale dei Ds, tutti eventi che provocarono un grande clamore, l’incanto svanisce. Diventiamo il Consiglio degli inquisiti. La commissione di valutazione de “Il Sole24 ore”, trascinata dai media, mi sbatte all’ultimo posto in classifica. Non al penultimo, all’ultimo posto. Si era evidentemente registrato nella commissione valutatrice un veloce processo di ravvedimento che presenta spesso aspetti punitivi. Il mosaico calabrese si ricomponeva dunque secondo gli umori prevalenti del paese.

Impiegherò tre faticosi anni per risalire verso metà classifica. Per la storia aggiungo che quegli avvisi di garanzia e quell’ arresto avvenuti tutti in forma eclatante, davanti a un giudice terzo si sciolsero come neve al sole. Nel caso che mi riguarda fu addirittura lo stesso Pm d’udienza, diverso da quello che aveva emesso l’avviso di garanzia, a chiedere il mio proscioglimento, recepito, dopo una brevissima Camera di Consiglio dal Gup.

Chiusa l’istruttiva parentesi, vorrei scrivere più dettagliatamente di quel mio timore del debito sanitario, cui ho sopra accennato. Non è un caso che qualche tempo dopo l’uscita della Lo Moro dalla giunta, precisamente nel 2009, si verifica quello che temevo. Vengo invitato dal governo a preparare un piano di rientro per illustrarlo nella sede del Consiglio dei ministri. L’esecutivo nazionale presieduto da Berlusconi si accingeva, a pochi mesi dalle elezioni – era questa la notizia che circolava – a mandare in Calabria quale commissario della sanità, una figura per la prima volta diversa dal Presidente in carica. M’impegnai a redigere in tempi brevi, insieme ad alcuni bravi dirigenti dell’assessorato della sanità e all’Agenas un piano di rientro finanziario ed aspettai la convocazione del presidente del Consiglio che non tardò ad arrivare.

Il confronto fu burrascoso sia il ministro della salute, Sacconi, sia i ministri della Lega furono durissimi nei miei confronti e del territorio che rappresentavo. Avevo in precedenza scritto due libricini contro la politica antimeridionale del Carroccio e non mi aspettavo un’accoglienza diversa. In certi interventi vidi affiorare i soliti antichi pregiudizi sui calabresi, di cui apparivo l’archetipo. Mi permetto di aggiungere che non mi difesi male, come riconobbe alla fine lo stesso Berlusconi accompagnandomi da padrone di casa all’ascensore. Per non farla troppo lunga, anche se so di averla fatta fin troppo lunga, dopo un paio di ore di discussione, Berlusconi, superando la figura del commissario esterno, propose a me quel ruolo. La proposta mi mise in difficoltà. Dopo alcuni secondi di smarrimento risposi che non me la sentivo di accettare. Se è vero che il commissariamento, attraverso un articolo della finanziaria, mi avrebbe offerto la possibilità di nominare tutti i manager della sanità senza l’obbligo di passare dalla giunta, è anche vero che lo stesso articolo mi avrebbe imposto il blocco del turnover e l’innalzamento delle aliquote fiscali dei calabresi al massimo consentito.

Dissi che se fossi stato nominato, contro la mia volontà, commissario, mi sarei dimesso da presidente in quella stessa sede. Berlusconi non se la sentì di provocare un gesto inedito nella storia della Repubblica e non se ne fece nulla. Per la cronaca, i calabresi, proprio per via del commissariamento, avvenuto dopo la mia sconfitta elettorale del 2010, quel fardello, lo pagano caro da circa undici anni e lo pagano in silenzio perché il territorio è rassegnato, non più capace di un fremito di protesta.

Ho fatto questo troppo lungo discorso per ribadire che il presidente della giunta, a partire dall’anno duemila, dispone di un non trascurabile potere d’iniziativa. Spero che in futuro ci sia qualcuno disponibile a proporre un dibattito sull’uso che di quel potere hanno fatto i presidenti che si sono succeduti alla guida della nostra regione nell’arco di questi due decenni

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