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Amalia Bruni

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La sua decisione di candidarsi è maturata in tempi abbastanza brevi. Lei aveva naturalmente, per la sua esperienza professionale, una visione della Calabria. Nel momento in cui ha deciso di scendere in campo ha dovuto finalizzare questa sua visione a interventi da proporre e porre in campo. Quali i principali?
«La sanità, assolutamente. È il campo in cui lavoro da 40 anni, dal primo novembre andrò in pensione. Negli anni ’80, quando ho iniziato, la sanità non era così. C’era una voglia di crescita, un impegno, la certezza che avremmo potuto costruire. A distanza di anni, ti guardi indietro e ti ritrovi con una sanità che definire a brandelli è riduttivo. La nostra sanità è un malato in rianimazione, con encefalogramma piatto, al quale il tavolo Adduce continua a dire “alzati e cammina”. Il tavolo Adduce pretende indici e parametri, mentre non ci sono organizzazioni amministrative e gestionali per farlo, non ci sono le risorse umane. Possono blaterare quanto vogliono, ma non riusciranno a farci andare avanti, senza un progetto complessivo.

Siamo arrivati ad avere 121 punti Lea, con il minimo che è 160. Un livello così basso non lo abbiamo raggiunto neanche nel 2009, quando siamo entrati in piano di rientro. È la prova del fallimento del commissariamento.

Il problema è il debito enorme che abbiamo, che non è stato misurato ancora. Vorrei sapere questi di Kpmg, che soggiornano da 11 anni nei corridoi della regione, che lavoro stanno facendo. La verità è che siamo in una terra non abituata ai controlli. La nostra idea è avere patto forte con il governo, in cui il ministero dell’Economia e della Salute costruiscono con la Calabria, e non sulla Calabria, un percorso. A partire dalla misurazione del debito, con specialisti, con un advisor. Certamente non Kpmg o almeno non quelli che in questo momento operano. Dopo aver misurato il debito, la strada è duplice. Una è la concertazione Stato-Regioni. Io personalmente croce sopra. Perché nessuna Regione sarà mai in grado di accettare di accollarsi parte del nostro debito. Loro al momento si stanno prendendo i soldi. Hanno costruito tutti una sanità forte sui nostri malati. Ovviamente, se qui non c’è nulla, i pazienti vanno e loro li accolgono. Hanno aumentato i loro servizi, talmente tanto da assumere medici, infermieri calabresi. Molti colleghi illustri sono sfiduciati rispetto all’idea che si possa risolvere il problema della sanità, perché è talmente cresciuta la richiesta e l’organizzazione di servizi in altre regioni che diventa difficile. Chiaramente non è un processo che completi da un momento all’altro, ma è evidente che lo devi interrompere. Il patto significa che in conferenza Stato Regioni non si può andare per i motivi che ho detto. Devi parlare con il governo, perché si prenda la responsabilità di un debito enorme che non è stato generato dai calabresi.

Il Piano, condotto più dal ministero dell’Economia che della Salute, è stato fatto solo di tagli. Se non hai medici, come rispondi al pronto soccorso? Quali medici ci metti su ambulanze 118 che sono demedicalizzate?

Noi abbiamo due anni in meno di aspettativa di vita rispetto al resto d’Italia. Abbiamo il 50% in più di mortalità perinatale. Ma di che parliamo? Io sono incarognita. La nazione deve decidere se la Calabria deve restare in Italia o va spostata in Africa. Ci deve essere assunzione di responsabilità seria da parte del governo. Questo però si fa se c’è autorevolezza del presidente, della giunta, unità dei calabresi. Siamo inoltre in un momento particolarissimo. È il momento in cui bisogna entrare perché pandemia e Pnrr ti dicono che la sanità va ricostruita, sulla base dei territori e in modo equo, senza diseguaglianza. Bene, più diseguali di noi non c’è nessuno. C’è un aspetto culturale, politico su cui lavorare. Di forza, anche. Guardate, se necessario dovremo prendere e riempire i pullman. Dovremo testimoniare tutto quello di cui abbiamo necessità. Non me la sento più di vivere in una terra in cui i diritti sono negati. Ho lavorato una vita per percorsi assistenziali creati per i nostri pazienti con demenza. Sapete dove sono implementati? In Veneto, Liguria, Piemonte, Emilia. Dappertutto».

Ieri ha avuto un incontro in streaming con il ministro Speranza. Ci pare si esponga poco finora. Lei è soddisfatta di questa interlocuzione?
«Io sono convinta che sia dalla nostra parte, anche dopo il confronto che abbiamo avuto ieri e i miei discorsi. Il problema è che chi sta fuori rischia di non vedere bene le situazione, di non essere informato in maniera attenta…».

Ci permetta un inciso: se lui si è accorto di chi fosse Cotticelli da una trasmissione Tv, può venire il sospetto che il governo non abbia contezza di cosa facciano i commissari.
«Spesso e volentieri quando non c’è una forza di contrattazione politica… I tavoli sono tecnici, le decisioni solo politiche. Dopodiché se tu dal tavolo tecnico lo spostamento alla politica non lo fai, se non c’è una circolarità di informazioni e questa politica di qui non è abbastanza autorevole per porre la discussione a un livello che non può essere solo quello del “mi incateno” ma quello dei dati, delle misure, proposti con forza all’attenzione del governo. Andiamo a prendere i dati di Passi e di Passi d’argento, i progetti di sorveglianza dell’Istituto superiore di Sanità che servono per misurare in tutta Italia i bisogni della collettività. Gli strumenti esistono. Basta guardare quei dati. Riferiti alla Calabria c’è da mettersi le mani nei capelli. Se tu hai messo in campo un sistema di controllo e di commissariamento, ma registri che è fallimentare perché non solo la qualità dei servizi non migliora, ma la qualità di vita delle persone scende sempre più e questo non arriva agli alti vertici della politica, c’è un problema di passaggio delle informazioni e di responsabilità della Regione vessata di porre questa situazione in una certa maniera».

Ma è sconcertante che il governo non controlli quello che fa il commissario.
«Il problema sono i dati. È il sistema che si è impoverito, una situazione perversa in cui peggio stai più ti vessano».

C’è anche una questione di controllo dei manager che sono nelle aziende. È un problema dell’uomo solo al comando o è qualcosa che coinvolge l’intero sistema?
«Non è un problema solo del commissario. Se si guarda solo a quell’aspetto abbiamo fallito, né arriviamo da nessuna parte. In questo percorso di costruzione della sanità bisognerà essere assistiti in queste capacità, perché dal punto di vista di profili amministrativi probabilmente non brilliamo. Non siamo messi bene nemmeno dal punto di vista numerico all’interno delle strutture dipartimentali della regione Calabria. Per il numero di abitanti, ci volevano almeno 130/150 persone a lavorare, nel comparto sanità, ce ne sono a stento una trentina. Dieci forse sanno di cosa si parla. C’è una problematica importante, quindi, che negli anni non è stata attenzionata, perché non c’è stato un ricambio nella pubblica amministrazione. Come nella sanità sono andati via medici e paramedici, e non sono stati rimpiazzati, nella pubblica amministrazione la stessa cosa. È un problema di mancanza di ricambio, di professionalità che non è stata messa dentro. Poi ci sono una serie di contenitori che neanche conosco, con un precariato enorme. Contenitori in cui ci sono precari, con profili professionali che appunto non conosco, ma magari ci sono persone capaci, da formare, che devi riprendere necessariamente. Contenitori creati evidentemente per aiutare gli uffici quando non si poteva assumere. Il problema è talmente intricato che ci vuole davvero un piano Marshall, come dice la rettrice della Sapienza, nostra conterranea. Non è solo problema di risorse, è un problema di capacità di programmazione, di amministrazione, di direzioni generali, di mettere dentro i processi del budget. Con un sistema di obiettivi e di controllo».

Ma Speranza che le ha detto?
«È stato molto disponibile a farsi carico di questa situazione e a inquadrarla in questo momento storico particolare, legato alla pandemia e al Pnrr. La visione deve cambiare, non deve essere legata solo a un aspetto economico ma al riequilibro della salute delle popolazioni da nord a sud dell’Italia. Da questo punto di vista è il momento adatto ma bisogna essere capaci di navigarlo e condurlo in maniera autorevole e globale. Se andiamo a rivendicare solo il discorso del commissariamento abbiamo toppato alla grande. Bisogna essere in grado di creare una bella squadra, con persone che hanno competenza e la giusta visione. La sanità è quella cosa che se tu sposti un servizio anche solo di due chilometri hai creato un danno enorme nella collettività anche di tipo economico. La sanità è questione di economia non solo sociale e sanitario. Ripristinare i percorsi sanitari nei territori, riaprire gli ospedali piuttosto che le case della comunità, o quelle della salute in base ai bisogni dei territori. Le case di comunità il Pnrr le individua ogni 100mila abitanti, ma in alcuni casi devi adeguare questa previsione al territorio, alle strade, alle distanze. Devi individuare i servizi in rapporto a una geografia che gli altri vedono piatta sulle cartine e noi sappiamo essere diversa. Devi spingere molto su sanità territoriale. Lo scoglio è anche il personale, i medici. Veniamo fuori da un periodo in cui università formano medici in un numero che non è sufficiente rispetto al bisogno dei territori, soprattutto guardando alle scuole di specializzazione. Su 10mila laureati annui ne inseriamo 8mila, ne restano 2mila precari che fanno le guardie nelle cliniche e poi vanno all’estero. Certo non possiamo nemmeno abolire il numero chiuso di botto perché mancano i docenti. Però le cose vanno costruite in maniera graduale».

Quando si è insediato il ministro Speranza si parlava di una revisione del commissariamento, con l’ipotesi di tramutarlo in affiancamento. Poi è arrivata la pandemia, ma ora forse i tempi sono maturi per discuterne.
«Assolutamente sì. La pandemia non ha aiutato niente e nessuno, anche il controllo sulle regioni fragili è stato fatto solo rispetto al discorso Covid. La situazione paradossale è che a guidare i processi è il ministero dell’Economia. Non credo che noi calabresi siamo intenzionati a sottrarci ai nostri doveri come cittadini. Ma già paghiamo 30 milioni di euro l’anno, per recuperare un debito maturato fino al 2009, quando si facevano gli ospedali fotocopia, come nel reggino dove sorgevano a distanza di 10 chilometri l’uno dall’altro. Si spendeva tanto per mantenere ospedali che non erogavano servizi di qualità. Poi non abbiamo mai avuto la visione di una sanità costruita sul territorio ma tutto su ospedali. Quando c’era il commissario Scura, ricordo che in un incontro gli feci notare che si era focalizzato sull’organizzazione degli ospedali, trascurando il territorio. La risposta fu “ma quello è difficile”. Poi, per carità, forse come obiettivo gli avevano dato la revisione organizzativa degli ospedali. Quello che sicuramente ha fatto sono tante carte, il problema è che non c’è stata produzione da carte a territorio».

Poi c’è la questione dei privati…
«La mia idea è che deve esserci integrazione, ma non può esserci uno squilibrio così importante. Non è giusto che ci sia una sanità privata che offre tecnologie all’avanguardia, mentre noi stentiamo anche nel fare una Tac o una risonanza. Ma se non abbiamo un pubblico di qualità la gente comunque non ci va. Bisogna ricostruire un pubblico di qualità, in un ambiente che sia anche logisticamente gradevole perché anche la parte alberghiera ha la sua importanza».

Qual è la vera cifra politica della sua candidatura? Cosa la differenzia dagli altri candidati?
«La differenza è profonda. Innanzitutto di genere. Non è da poco. La differenza quindi di essere anche più concrete come le donne. Siamo concrete, pratiche, pianifichiamo. Abbiamo un cervello che si è sviluppato in maniera diversa rispetto agli uomini. La modalità di comunicare è diversa. Non è discriminazione (sorride, ndr), sono dati scientifici. Nel caso delle donne la modalità di connessione è diversa, interemisferica, e permette di fare trenta cose contemporaneamente. Nell’uomo è monodirezionale. Una cosa per volta. Naturalmente non vale al cento per cento, ma globalmente c’è questa diversità di approccio. Quindi, differenza di genere. Poi io non sono un politico della vecchia maniera. Nel senso che comincio a fare politica oggi, da questo momento in poi, non mi riguarda quello che è stato, perché se siamo arrivati a questo livello di inconsistenza e inesistenza della Regione Calabria la responsabilità non può essere mia è sicuramente di una serie di persone che a vario titolo ha fatto una politica che non ha avuto a cuore il benessere della collettività. La mia candidatura è nata in Calabria, da due partiti, ho preteso la larga coalizione, ho fatto un braccio di ferro di 48 ore per averla. Gli obiettivi di questa terra sono talmente tanto difficili che se non siamo compatti ai nastri di partenza non ce la possiamo fare. Mi chiedono “Cosa ti può servire quello che conta un 1%?”. È un percorso culturale non politico.

Per me politica è servizio. Non mi sono candidata perché dovevo arrivare da qualche parte. Non mi interessa.

È il fatto di aver maturato un’insofferenza profonda, nel vedere questa terra martoriata. Noi professionisti, che avremmo potuto aiutare una rigenerazione della politica già da prima, non lo abbiamo fatto perché la politica è vista come qualcosa di sporco, di non bello. Io ho sempre pensato che avrei potuto aiutare la mia terra dall’angolo del mio lavoro. Dopo 40 anni, ho visto che i risultati di scienza sono stati enormi ma le ricadute nella collettività ridotte».

Sulle politiche di genere, come intende intervenire?
«Dobbiamo aiutare la persona, e soprattutto le donne, ad essere più in grado di aiutare lo sviluppo della società. Serve Welfare, servono asili nido. Sono i cammini, i percorsi che vanno fatti. È un percorso principalmente culturale. Su questo bisogna lavorare, favorire lo sviluppo di un’impresa femminile. Non “mono”, possibilmente più ampia. C’è un percorso specifico di aiuto, che metteremo in piedi subito, sul periodo della gravidanza. Oggi ci sono una serie di test perinatali che costano l’ira di Dio, perché non sono nei Lea. Vogliamo garantirli, come aiuto della Regione, alle donne. Riteniamo sia importante per proteggere la gravidanza, la donna, le scelte. Ci sono tante riflessioni da fare, nel percorso familiare, sociale ed educativo della donna. Le donne sono le caregiver delle persone con demenza. A livello mondiale, sono le donne che lasciano il lavoro quando sorge la necessità di assistere un familiare. Abbiamo studiato il fenomeno durante il lockdown su pazienti di 90 centri in Italia, raccogliendo dati su 5000 famiglie: è emerso che tantissime donne hanno dovuto rinunciare al lavoro per potersi dedicare ai familiari. Ci sono iniziative di ordine governativo ancora non maturate sui caregiver. Bisogna vederlo come lavoro, che riguarda anche gli uomini. In Calabria abbiamo 30mila casi di demenza, un dato che è in linea con quello nazionale, ma nella nostra regione non ci sono aiuti».

Quale sarà il futuro del suo centro?
«Il centro ha una sua dignità, non è la mia holding, è una struttura nata con legge regionale che da tempo doveva evolvere verso un Ircss. È una situazione che andrà risolta, è una struttura di cui la Calabria, anzi l’Europa, ha bisogno, anzi andrebbe amplificata. Bisogna lavorarci. Per quanto mi riguarda, come detto andrò in pensione, ma continuerò a fare attività di ricerca, come interesse e passione culturale. Abbiamo siglato una convenzione con l’Unical, con messa in comune di una banca dati, che va dalla fine del 600 ai giorni nostri, oltre 15mila cartelle su cui lavorare, anche con gli strumenti dell’intelligenza artificiale. Certo, se sarà eletta governatrice, sarà più difficile fare attività di ricerca diretta. Ma lavorerò perché la cultura della ricerca sia più diffusa. Abbiamo fondi per la ricerca che restano intonsi, progetti europei che tornano indietro. La ricerca è uno strumento di cultura, pensare che tu possa studiare via via per capire quale sia la soluzione migliore da implementare. È un passaggio di testa: sperimentare, testare le soluzioni, valutare i risultati, applicare i modelli. Io costruisco le basi di questo cammino, che poi bisognerà proseguire. Si mette insieme una buona squadra, io non sono per l’uomo solo o la donna sola al comando».

Lei chiude la campagna elettorale con Giuseppe Conte a Reggio. Dopo gli ultimi bagni di folla, avete predisposto misure di sicurezza, contingentato gli accessi, per evitare gli assembramenti?
«Sono polemiche agitate da altri, quelle sul numero di presenze. Lui ha un aspetto mediatico importante, con una comunicazione diretta, tranquilla, che piace. Sull’evento si sta ancora lavorando. Saremo all’aperto, in una piazza molto grande, avremo tutti la mascherina. È importantissima la presenza di Conte in questa chiusura di campagna».

Nel caso in cui dovesse perdere, arrivare seconda, lei resterà in consiglio regionale a fare opposizione?
«Sì, come ho detto da subito. È un processo di costruzione che non si esaurisce con la campagna elettorale. Vogliamo riavvicinare i territori alla politica, anche la mia lista è nata così, per dare voce a tutti i territori».

E se dovesse arrivare terza?
«Ipotesi che non esiste. Io non arrivo terza».

Qual è la prima cosa a cui ha pensato quando le hanno proposto la candidatura?
«Assolutamento no. Da “assolutamente no” a “voi volete farmi fare la kamikaze” a “sì” sono passati cinque giorni di travaglio. Credo sia stato anche un processo di maturazione, era una cosa che avevo dentro. I 5 stelle mi avevano contattato in passato, proposto altre candidature. Ma la Regione è un’altra cosa. È la mia terra, è lì dove senti che hai l’opportunità, speriamo, di dare un contributo. Mi interessano i risultati, non devo raggiungere poltrone. Non ho ambizioni per me, la mia vita l’ho fatta. Mi interessa che la mia terra sia conosciuta per le cose positive. Se cambiamo sistema di pensiero, abbiamo già fatto chilometri avanti»

La posizione di tanti intellettuali a sostegno di de Magistris, lei come l’ha vissuta?
«Li ho chiamati, tra loro ci sono anche tanti amici, la risposta è stata “abbiamo firmato tre mesi fa, tu non c’eri ancora”. Ho fatto presente che ci sono situazioni che arrivano e che richiedono un adattamento, un pensiero nuovo. Se questo pensiero nuovo non c’è, mi preoccupo. Perché la rigidità non funziona, in nessun settore. Bisogna essere adattivi al contesto, perché altrimenti non lo capiamo e non riusciamo a governarlo. Non li ho convinti. Vorrà dire che ognuno farà la sua strada».

Le domande sono state poste da Massimo Clausi, Maria Francesca Fortunato, Enrica Riera, Valerio Panettieri e Rocco Valenti

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