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L’assurda storia dell’operazione “Cosa Mia” e la corsa di politica e istituzioni per tirarsi fuori dalle responsabilità

REGGIO CALABRIA – Arrestati nel 2010 con l’accusa di essere tra i protagonisti di una sanguinosa guerra di mafia negli Anni 80-90, con 52 omicidi e altri 34 tentati in provincia di Reggio Calabria. Processati e condannati fino in secondo grado con una sentenza pronunciata a luglio del 2015, ma undici mesi dopo la scoperta: in tre sono stati scarcerati. Il motivo? Undici mesi dopo quella sentenza il giudice non ha ancora presentato le motivazioni della sentenza, al punto da fare scadere i termini della carcerazione.

L’ultima fotografia della giustizia calabrese è quella rilevata oggi da La Stampa che svela quanto accaduto con i personaggi coinvolti nell’operazione “Cosa mia”, nata nel 2010 da un’indagine della procura di Reggio Calabria sulle famiglie della piana di Gioia Tauro. L’inchiesta aveva svelato il controllo delle cosche sui lavori dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, con una tangente del 3% imposta alle imprese sotto la voce «tassa ambientale» o «costo sicurezza».

Nel 2013 la corte d’assise determina 42 condanne per complessivi trecento anni di carcere, con una sentenza di 3200 pagine. Tesi sostanzialmente confermate nella sentenza d’appello, pronunciata a fine luglio dell’anno scorso. Per permettere il rispetto dei termini di custodia cautelare, la corte d’appello avrebbe dovuto depositare le motivazioni entro 90 giorni, quindi entro fine ottobre 2015, ma ancora oggi questo non è mai avvenuto e i termini sono scaduti la scorsa settimana senza che la Cassazione abbia nemmeno ricevuto le carte del processo.

Tutto ancora fermo nella corte d’assise di Reggio Calabria perché il giudice Stefania Di Rienzo non ha ancora depositato le motivazioni della sentenza. Scaduto il primo termine di 90 giorni, aveva chiesto una proroga: altri tre mesi. Scaduti anche quelli. Consentendo a tre imputati con sulle spalle una doppia condanna per associazione mafiosa, di lasciare il carcere. Altri dieci erano tornati liberi precedentemente, sempre per scadenza dei termini della custodia cautelare.

Solo dopo che la notizia è stata resa nota dal La Stampa, la prima commissione del Csm ha richiesto al Comitato di Presidenza l’apertura di una pratica sulla vicenda. La Commissione Antimafia ha, invece, chiesto «di fare luce, per capire come sia stato possibile un ritardo davvero clamoroso nel deposito delle motivazioni della sentenza di condanna di molti pericolosi ndranghetisti della piana di Gioia Tauro, tornati liberi per decorrenza dei termini». L’Antimafia ha anche ricordato che «solo poche settimane fa, la Commissione ha approvato una dettagliata relazione sulla situazione degli uffici giudiziari della Calabria nella quale denunciavamo le carenze di organico e il drammatico arretrato accumulato nelle sedi di Reggio Calabria e Catanzaro».

Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha reso noto di avere chiesto agli ispettori di via Arenula «di acquisire notizie» sulla vicenda dei ritardi nella stesura delle motivazioni della sentenza di appello del processo “Cosa Mia». Compito degli ispettori, secondo quanto ha spiegato lo stesso ministro, é di «verificare la veridicità» della notizia, con l’aggiunta che, nel caso la vicenda fosse confermata, gli stessi ispettori dovrebbero “assumere le conseguenti iniziative». Il Ministro fa capire, in sostanza, che quanto é accaduto non potrà non avere conseguenze per chi se n’é reso responsabile.

E’ partita, dunque, la raffica di comunicati, le prese di posizione, gli scaricabarili e lo scambio di accuse tra le parti politiche. Il solito ritornello di chi sembra essere estraneo nonostante sia protagonista. Nel frattempo, i tre ‘ndranghetisti sono liberi per la decorrenza dei termini. Pronti a rafforzare l’idea che la ‘ndrangheta non abbia rivali, men che meno in uno Stato assente, distratto, burocratizzato fino all’osso. Lontano dalla benché minima idea di riuscire a garantire giustizia. (sa.pu.)

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