X
<
>

Giuseppe Graviano, ex boss del mandamento di Brancaccio a Palermo

Condividi:
2 minuti per la lettura

MILANO – Un figlio concepito durante la detenzione al 41 bis approfittando di un momento di distrazione degli agenti. È uno degli episodi che, come un fiume in piena, Giuseppe Graviano, ex boss del mandamento di Brancaccio a Palermo, ha raccontato della sua vita di detenuto al regime del carcere duro, rispondendo in videoconferenza alle domande del pm in occasione dell’udienza del processo “‘Ndrangheta stragista” in Corte d’assise, a Reggio Calabria.

Graviano, però, ha evitato di rispondere sulle modalità utilizzate per concepire il figlio nel supercarcere dell’Ucciardone, sostenendo che sua moglie non è mai entrata nella casa circondariale, facendo così dietrofront e disconoscendo le parole pronunciate in prigione e intercettate nel processo “Stato-mafia”: «Mia moglie non è mai entrata in carcere, nella cesta della biancheria. Forse, parlavo di mio fratello che fu messo nella mia stessa cella».

Un mistero, quello del concepimento avvenuto dietro le sbarre della ex fortezza borbonica. Nel 1997, la procura di Palermo cercava chi avrebbe aiutato i fratelli Graviano a organizzare l’inseminazione artificiale delle proprie mogli. I magistrati erano sulle tracce di complicità eccellenti, magari in cambio del silenzio dei due boss coinvolti nelle stragi. Poi sono arrivate le intercettazioni di Giuseppe Graviano in cui si parlava di una notte d’amore in carcere. Nell’ultima udienza del processo “‘Ndrangheta stragista”, infine, la marcia indietro.

Nella deposizione al processo a Reggio Calabria sono stati toccati poi altri argomenti. E Graviano è tornato ad accusare Silvio Berlusconi, come ha fatto in precedenti deposizioni. «Anche Dell’Utri è stato tradito da Berlusconi», ha detto l’ex boss sui suoi presunti rapporti con il Cavaliere. Il procuratore ha ricordato a Graviano le intercettazioni ambientali raccolte durante la detenzione con il camorrista pentito Umberto Adinolfi. Intercettazioni in cui si parlava di tradimento per avere aggravato la legislazione antimafia.

Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, imputati nel processo “‘Ndrangheta stragista”, sono accusati di essere i mandanti dell’agguato in cui furono uccisi gli appuntati dei carabinieri Giuseppe Fava e Antonino Garofalo, assassinati nel 1994 nell’ambito, per l’accusa, dell’alleanza stragista tra la criminalità calabrese e Cosa nostra voluta da Totò Riina. Secondo quanto è emerso dall’inchiesta della Dda di Reggio Calabria, la decisione di uccidere i due carabinieri fu presa nel corso di un summit mafioso svoltosi nelle campagne di Melicucco, nella piana di Gioia Tauro, cui presero parte anche esponenti di Cosa nostra.

Condividi:

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

EDICOLA DIGITALE